Due nuovi vescovi in Cina segno per l'unità dei credenti
giovedì 1 dicembre 2016

L’ordinazione di due vescovi cinesi, Giuseppe Tang Yuange (a Chengdu, in Sichuan) e Giovanni Battista Wang Xiaoxun (ad Ankang, in Shaanxi) – mentre se ne annuncia una terza a Xichang (Sichuan) – è indubbiamente un evento positivo per la Chiesa in Cina.

In tutte le diocesi del mondo, l’arrivo di un nuovo vescovo è sempre una festa, tanto più quando ne manca uno da molti anni (e mentre altre quaranta diocesi in Cina restano ancora senza vescovo). «Vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (Mc 6,34). La masse è tanta, ma gli operai sono pochi: la missione nasce dalla compassione per le folle. Dare un pastore a una diocesi significa incoraggiarla a trovare la sua unità e a crescere come comunità, rinsaldando anche il vincolo che la lega alla Chiesa universale. Significa, insomma, aiutarla ad annunciare il Vangelo.

Lo mostra con particolare evidenza la realtà della Chiesa in Cina, ferita da divisioni profonde e molteplici, non più riconducibili a un’unica ragione storica, che l’attraversano al suo interno e che la tengono distante dalla comunione cattolica.

Già lo scorso anno era stato ordinato un vescovo (Giuseppe Zhang Yinlin, ad Anyang in Henan) e un’altra ordinazione ha avuto luogo qualche settimana fa (Pietro Ding Lingbin a Changzhi nello Shanxi). Sono segni di una ripresa del cattolicesimo cinese che negli ultimi tempi sta vivendo una graduale accelerazione (anche se l’ordinazione di Chengdu è stata turbata dalla presenza di un vescovo illegittimo). Tale ripresa beneficia del dialogo tra la Santa Sede e il governo cinese, riavviato da alcuni anni – l’ultimo incontro del gruppo di lavoro congiunto si è svolto a metà novembre – dopo una brusca interruzione nel 2009. A tratti la stampa internazionale torna a occuparsi dei contatti tra le due parti, soprattutto in chiave politico-diplomatica, come hanno fatto recentemente 'Reuters' e 'Wall Street Journal', alternando giudizi opposti su un possibile accordo. Ma questa logica deve essere ribaltata: un’eventuale intesa tra le due parti non è un fine, bensì un mezzo. L’obiettivo della Santa Sede non è l’'accordo per l’accordo' o l’ansia di compiacere il governo cinese, ma la guarigione delle ferite che fanno soffrire la Chiesa in Cina. Papa Francesco infatti persegue lo stesso obiettivo indicato da Benedetto XVI nella Lettera del 2007 ai cattolici cinese e cioè favorire la loro unità.

Questa strada passa necessariamente anche attraverso un dialogo con le autorità, senza che ciò comporti necessariamente un 'cedimento', come affermava già papa Ratzinger. È accaduto molte volte nella storia della Chiesa, quando il potere politico come nel caso degli imperatori romani o in quello degli Stati assoluti dell’Europa moderna - ha creato divisioni profonde nella comunità dei credenti, per superare i quali Roma ha stretto rapporti e accordi con i suoi rappresentanti. Si tratta di una storia troppo spesso dimenticata e buona parte della stampa occidentale si comporta come se la democrazia - peraltro oggi in crisi anche in Occidente - prevalesse ovunque o quasi. Una rappresentante di Human Rights Watch ha recentemente dichiarato che se il Vaticano accettasse un qualsiasi accordo con Pechino «sottovaluterebbe sei decenni di ostilità nei confronti della religione» e «si coinvolgerebbe con un regime che sopprime le fedi». La conclusione è perentoria: «Il Vaticano non dovrebbe accogliere nessuna offerta di Pechino finché non sia stata garantita la libertà religiosa in tutta la Cina». La libertà religiosa è indubbiamente molto importante, ma non è ancora all’orizzonte. Intanto, come ha scritto papa Francesco nella Misericordia et misera, alla comunità cristiana spetta realizzare la sua missione adempiendo il «mandato di Cristo di essere strumento permanente della sua misericordia e del suo perdono» (cfr Gv 20,23).

Proprio perché conosce bene le sofferenze patite dai cattolici cinesi, il Papa vuole cambiare la situazione. Lavorando per l’unità dei credenti, la Chiesa persegue un fine propriamente ecclesiale, mentre impegnarsi nella battaglia per la libertà religiosa nella Repubblica popolare cinese implicherebbe un’azione politica. E l’esperienza storica mostra che - più di tante dichiarazioni di principio - questa scelta contribuisce anche a difendere concretamente la libertà di credenti e non credenti, come è accaduto persino con i regimi totalitari nell’Europa del Novecento. Le cinque ordinazioni episcopali dell’ultimo anno e mezzo costituiscono un importante risultato del dialogo in corso. C’ è chi ritiene inutili i contatti tra le due parti per una sostanziale indisponibilità cinese. Ma in tutti e cinque i casi c’è un 'consenso parallelo', diversi sono i candidati che la Santa Sede ha scelto da tempo e il «mandato apostolico» viene reso noto preventivamente al clero delle diocesi. Roma, insomma, è entrata più di quanto sembri nella nomina e nella ordinazione di questi vescovi. Si sta così sperimentando un modus operandi che potrebbe costituire la sostanza di un accordo formale tra le due parti.

Ci si sta avvicinando nei fatti alla dottrina cattolica prevalsa dopo il Vaticano II, più restrittiva del passato, che pone nelle mani del Papa - dopo le opportune consultazioni anche di autorità civili - la scelta dei vescovi. Se questa prassi si imponesse sarebbe la fine di un incubo e la definitiva eliminazione della possibilità di uno scisma in Cina (che può venire non solo da vescovi 'ufficiali' ma anche 'clandestini': recentemente alcuni di questi hanno ordinato altri vescovi contro la volontà del Papa e perciò anch’essi 'illegittimi'). Non mancano le difficoltà. Tra i problemi ereditati dal passato, ci sono otto vescovi ufficiali non riconosciuti da Roma e circa trenta vescovi clandestini non riconosciuti dal governo cinese. Nei riguardi dei primi, si è parlato più volte di un possibile perdono da parte del Papa. Durante l’Anno Santo, la Chiesa ha mostrato in modo largo il volto della Misericordia verso i lefebvriani e il perdono dei vescovi ufficiali illegittimi andrebbe nella stessa direzione. Verso i vescovi clandestini, il cardinale segretario di Stato Parolin ha ribadito più volte l’attenzione e la vicinanza della Santa Sede. In entrambi i casi, ci sono molte situazioni personali che devono essere risolte e ciò richiede tempo. Ma è possibile lasciare ancora a lungo senza risposta le folle senza pastore, come vorrebbero quanti oggi si oppongono al Papa?

C’è chi vede nella passione di Francesco per queste folle in Cina quasi un 'tradimento'. La rivista 'Esprit' dà invece una spiegazione diversa, inserendo lo slancio missionario di Jorge Bergoglio nell’attenzione mostrata dai gesuiti verso questo grande Paese a partire da Matteo Ricci. 'Esprit' tuttavia non collega questo Papa alla tradizione dell’'accomodamento' - o, in termini più moderni, dell’inculturazione - indubbiamente presente nella prassi missionaria dei gesuiti. Ci sono radici più profonde, come la dimensione mistica della spiritualità ignaziana, evocata da papa Bergoglio nell’intervista alla 'Civiltà Cattolica' del 2013 citando Michel de Certeau. Questi scrive che la vocazione di un missionario «consiste nel trovare Dio proprio là dove Dio sembra assente» e che per realizzarla deve compiere un lungo cammino con gli uomini e le donne del Paese cui viene inviato, a partire dal loro linguaggio, dalla loro cultura e dal loro senso religioso. Non è un’inclinazione pratica al compromesso che muove papa Francesco, ma una ben più profonda spinta a cercare Dio in mezzo al grande popolo cinese: Dio, infatti, è in Cina da molto tempo, sono i cristiani che tardano a raggiungerlo.

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