venerdì 18 agosto 2017
Devastata da due conflitti riparte la Cecenia dei vicerè
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Cecenia, chi era costei? Ma non è la terra che per vent’anni fu tra le più martoriate al mondo, devastata da due guerre (19941995 e 1999-2009) di rara crudeltà e attraversata da un movimento indipendentista che partorì anche formazioni terroristiche tra le più spietate che la storia ricordi? Non si tratta forse di quella repubblica del Caucaso che sembrò essere uno degli ombelichi del mondo, il luogo in cui si decideva la sorte dell’intera Federazione russa, il campo di battaglia di una delle tante guerre per procura di questo inizio di terzo millennio? Sì.

Ma oggi è quasi dimenticata. Viene tirata fuori quando gli oligarchi ne fanno una particolarmente bizzarra, o per le voci sui presunti campi di concentramento per gay. Ma nulla più. D’altra parte anche il russo medio, che negli anni Novanta guardava ai ceceni e alla loro sfrontatezza come a uno spauracchio e spesso si rifugiava nel razzismo (i “neri” o, peggio, i “c... neri”, li chiamava), di questi tempi ha solo l’imbarazzo della scelta: l’Ucraina, la Siria, le sanzioni dell’Europa, il crollo del prezzo del petrolio e i missili della Nato ai confini.

Così, nel 2015, quando un gruppo di armati si è messo a sparare nel centro di Grozny in un attentato poi rivendicato dall’Isis (Daesh), il fatto è finito agli ultimi posti tra gli “eventi dell’anno” nel rituale sondaggio annuale del Levada Center, appena prima di una grigia visita di Stato in India di Vladimir Putin. E nel 2016 un altro sondaggio ha chiarito che il 40% dei russi adesso sarebbe ben felice di concedere l’indipendenza alla Cecenia mentre un altro 12% già la considera una “cosa” a sé, in pratica uno Stato straniero.

Questo è anche un effetto del drastico calo dei morti per terrorismo in Cecenia: da 127 nel 2010 a 27 nel 2016. Un fenomeno positivo che ha investito tutto il Caucaso del Nord (Ingushetia: da 134 a 15; Ossetia del Nord: da 24 a 0; Dagestan, da 378 a 140) ma che impressiona se riferito alla Repubblica dei bombardamenti sulle città, delle fosse comuni, dei massacri nelle scuole e negli ospedali.

Da questo punto di vista, se non abbiamo paura di usare il cinismo della politica, la Cecenia è il capolavoro di Vladimir Putin. Fu lui, primo ministro sconosciuto ai più e in carica da pochi mesi, a lanciare la seconda guerra contro la Repubblica ribelle nell’agosto del 1999 e a condurla senza esitazioni né rimorsi. Ma è stato lui, poi, a organizzare un dopoguerra che ha trasformato le macerie del capoluogo Grozny in grattacieli all’insegna della pacificazione, che era poi la cosa che più interessava alla popolazione. E gli ex ribelli in sudditi fedeli.

Sui termini occorre ovviamente intendersi. La rinascita economica della Cecenia non è fatta di fabbriche né di servizi ma di carta: quella su cui si stampano le banconote che il Cremlino fornisce con abbondanza. Circa un miliardo e mezzo di dollari l’anno (pari più o meno al 90% del budget della Repubblica) per far girare la funzione pubblica che, con la disoccupazione al 20% , resta il maggior datore di lavoro. Il resto è in gran parte speculazione edilizia come quella delle Grozny City Towers, i grattacieli più fotografati del Caucaso, costruiti con i quattrini di alcuni investitori privati degli Emirati Arabi Uniti e con quelli di due fondi d’investimento intitolati uno ad Akhmad Kadyrov e l’altro a Ramzan Kadyrov, padre e figlio.

Il nome dei Kadyrov non poteva non emergere, qualunque sia il discorso che si vuol fare sulla Cecenia di oggi. Bella o brutta che sia, essa nasce dall’applicazione da parte del Cremlino del principio della “cecenizzazione” della crisi. La vecchia pratica sovietica era basata sul controllo centralistico. Nelle Repubbliche periferiche, il numero uno del Kgb come del Partito comunista era scelto in loco, per rispettare gli equilibri e gli umori, ma il numero due era inviato da Mosca e aveva il compito di osservare e riferire. Putin ha rovesciato lo schema e ne ha adottato uno di tipo coloniale. Il vicerè, scelto in loco, comanda a piacimento nel territorio che gli è stato assegnato, purché rispetti gli obiettivi strategici. A garanzia del patto appunto i quattrini: senza quelli di Mosca, la Cecenia farebbe pochissima strada.

E questo sono i Kadyrov: dei vicerè insediati da Mosca. La quale, però, ha con loro un debito di riconoscenza. Soprattutto per quanto riguarda Akhmad, che durante la prima guerra di Cecenia si era schierato con il presidente indipendentista Dzhokar Dudaev, aveva combattuto i russi ed era stato nominato (1995) gran muftì, ma che all’inizio della seconda guerra aveva cambiato bandiera e si era schierato con il Cremlino. Per convenienza o perché davvero, come disse lui, era preoccupato per l’afflusso di combattenti stranieri seguaci del wahabismo, che stavano trasformando la causa nazionale cecena in un jihad? Non lo sapremo mai.

Comunque sia, Kadyrov padre fu nominato da Putin capo dell’amministrazione provvisoria nel 2000, nel 2003 divenne presidente con elezioni alquanto dubbie e nel 2004 fu ucciso da una bomba degli uomini del terrorista (ceceno anche lui) Shamil Basaev. Stessa storia per il figlio Ramzan: primo ministro reggente per due anni, poi Presidente (nel 2007, a trent’anni d’età) con elezioni curiose, in seguito replicate con maggioranze più che bulgare, oltre il 98%. I due Kadyrov avevano un compito preciso: sradicare il terrorismo o, per meglio dire, sradicare i terroristi, miliziani o combattenti che dir si voglia.

Ramzan ci è riuscito in due modi. Il primo, lanciando un’amnistia del quattrino. Non importa se avete combattuto contro i russi, anch’io l’ho fatto (anche se molti ne dubitano). Adesso posate le armi e venite con me, avete solo da guadagnare. Questo il messaggio lanciato ai superstiti della lotta armata, che a centinaia sono corsi ad arruolarsi nelle forze di sicurezza cecene, 80mila uomini che rispondono a Kadyrov più che a Mosca.

Un meccanismo oliato dalla corruzione, così rampante da portare il Presidente ceceno ai primi posti nella classifica dei casi seguiti da Transparency International. Secondo l’organizzazione, Kadyrov pretende che i singoli cittadini versino tra il 10 e il 30% (che diventa 50% per i redditi delle società) alla Fondazione Akhmad Kadyrov, che così intasca tra 45 e 60 milioni di dollari ogni mese. La Fondazione poi li moltiplica investendo nell’edilizia e in tutta una serie di attività (linee aeree, commercio di automobili, stabilimenti alimentari, fattorie, persino distillerie di liquori) protette da prestanome e scatole societarie.

L’altra strada battuta da Kadyrov è stata quella della pura e semplice repressione. Naturalmente lui è il primo a esaltare il destino nazionale ceceno. E così pure la via cecena all’islam, una sua più recente scoperta, non priva di contraddizioni visto che per le donne il velo islamico è obbligatorio negli uffici ma facoltativo, e quindi poco usato, per strada. Ma solo all’interno e in funzione della potenza russa. Nessun rigurgito di indipendentismo viene quindi tollerato: non a livello politico, men che meno se prevede o giustifica una lotta armata che, peraltro, metterebbe in discussione il ruolo dello stesso vicerè. Così Kadyrov, il giovanotto che ha speso milioni per palleggiare con Maradona a Grozny o farsi abbracciare da Mike Tyson, riesce a definirsi “il primo dei soldati di Putin”. E se qualcuno ha voglia di ridere, pensi prima ai due battaglioni dell’Armata Rossa, formata da soli ceceni, che hanno combattuto ad Aleppo.

Due secoli di rivolte

Inglobata nell’impero russo a partire dal 1783, la Cecenia si è sempre segnalata per la resistenza al potere centrale. Le ribellioni contro Mosca, stroncate nel sangue, furono numerose e portarono persino alla creazione di un imamato del Caucaso.

I ceceni insorsero anche durante la seconda guerra mondiale, contando sul fatto che l’Armata Rossa era impegnata contro i nazisti. Ma appena i tedeschi cominciarono a ripiegare, Stalin ordinò la deportazione di mezzo milione di ceceni (23 febbraio 1944), che in una sola notte furono trasferiti in Kazakhstan. Molti morirono chiusi nei vagoni bestiame, gli altri poterono rientrare nella loro terra solo nel 1957.

Considerata sempre la più povera e la meno assistita delle Repubbliche sovietiche, la Cecenia, guidata dall’ex generale d’aviazione Dzhokar Dudaev, arrivò sull’orlo dell’indipendenza con la guerra del 1994-1996. Il presidente russo Boris Eltsin aveva ordinato l’attacco a Grozny per stroncare le ambizioni autonomiste ma le truppe russe, superiori in uomini e mezzi, incontrarono una fortissima resistenza. Si parla di almeno 5.500 caduti tra i soldati russi (ma altre fonti dicono 14mila), 3mila guerriglieri uccisi e tra 30 e 100mila civili morti per i bombardamenti.

Nel 1996 fu siglata una pace che lasciava alla Cecenia ampi margini di autonomia. Ma nel 1999, dopo una serie di attentati che fecero in Russia centinaia di vittime e furono attribuiti a gruppi armati ceceni, Vladimir Putin, da poco primo ministro, riprese l’offensiva. I russi condussero questa seconda guerra in modo più organizzato e riuscirono a prevalere su un movimento indipendentista a quel punto infiltrato dall’islamismo. Almeno 15mila miliziani ceceni e 5mila soldati russi caddero negli scontri e i civili pagarono di nuovo un prezzo altissimo: tra 25 e 50mila i morti, tra ricorrenti accuse di abusi e violazioni dei diritti umani.



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