martedì 27 dicembre 2011
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Sembrava che dalla crisi – esplosa da due anni su scala globale – stessimo uscendo, e invece ne siamo stati risucchiati in maniera più gravosa e coinvolgente come nazione. La crisi ha genesi e natura economica, ma si sta rivelando pervasiva per i suoi riverberi sociali, politici, comportamentali. Non riguarda solo taluni, coinvolge tutti, chiamati ad accettare sacrifici per superarla. Il che è nella consapevolezza ormai di moltissimi, data l’evidenza dei conti che non tornano e la mannaia del rischio default alle porte. Il problema, di origine economica, non può che trovare soluzione economica. Ma l’economia non è un fatto meramente contabile. È un evento umano, nelle sue riuscite come nei suoi fallimenti. E dire umano è dire un evento di coscienza e di responsabilità morale, che in campo economico prende la forma etica della giustizia: la giustizia contributiva, con cui tutti (individui, famiglie, gruppi) concorrono al bene comune; e la giustizia distributiva, con cui ciascuno beneficia di esso – secondo criteri di proporzionalità, dettati da possibilità (la prima) e bisogni (la seconda). Senz’altro dietro la crisi ci sono deficit di correttezza economica, errori di ragioneria. Ma non sono solo e primariamente essi a determinarla, se le denunce più diffuse e rimarchevoli in questi giorni sono di «sprechi» e «privilegi». Questi non sono concetti propriamente economici, ma etici. Essi dicono negazione di giustizia, dietro cui non c’è un determinismo di processi ineluttabili, ma decisioni e responsabilità di persone. Dietro sprechi e privilegi e le loro ostinate resistenze c’è un deficit di coscienza morale, uno spread di giustizia in crescita gravosa, che prende corpo in una pluralità d’ingiustizie. Ingiustizie tanto più tollerate quanto più perpetrate nei confronti della società e del bene comune, nell’incosciente persuasione che ciò che è di tutti non è di nessuno e se ne può fare quello che si vuole. Si dispone della 'cosa pubblica' in modo arbitrario e dissipatorio. Per cui vediamo amministratori pubblici che si sottraggono, per negligenza o inefficienza, ai propri compiti di gestione e di controllo. Governanti che si avvalgono del bene comune per interessi di parte e di partito. Politici che volgono le risorse della città e dello Stato a procurarsi consenso e seguito. Con una doppia ingiustizia: verso la società, privata dei suoi beni e via via indebitata; e verso i cittadini privati dei propri legittimi diritti. È in questo modo violata la giustizia distributiva. Tanto più quanto più gli oneri di questa ingiustizia vengono fatti pagare dagli onesti e dai poveri. Ma il deficit di coscienza morale e il peccato d’ingiustizia è anche da parte dei cittadini che vengono meno ai propri doveri di cura e promozione di quel 'noi­tutti' che essi formano uniti in comunità civile e politica. Il che avviene o beneficiando di beni non dovuti, beni abusivamente conseguiti; o sottraendosi ai propri obblighi di cooperazione al bene comune, primi fra tutti gli obblighi fiscali: dalle omesse o false dichiarazioni a tutte le prestazioni e i pagamenti 'in nero'. Per non dire delle speculazioni finanziarie preferite agli investimenti produttivi. È così violata la giustizia contributiva. È questa un’erosione 'dal basso' che, unita a quella 'dall’alto' di amministratori e politici, porta all’indebitamento della città e dello Stato: indebitamento morale prima ancora che economico, indice di un default delle coscienze. È per questo che il suo rimedio non può venire da mere operazioni d’ingegneria economica e politica, ma da un rinnovamento e coinvolgimento morale delle persone, ciascuna in rapporto ai compiti e agli obblighi che le competono nella società. È facile individuare le omissioni e gli abusi altrui: occorre cominciare da sé, dalla propria famiglia, dalla propria azienda, dal proprio sindacato, dalla propria corporazione, dal proprio partito, compresa la propria Chiesa. È un obbligo morale, che non ci fa solo più giusti al cospetto degli altri e della società, ma più santi al cospetto di Dio. Così avremo trasformato un momento critico del nostro vivere sociale in un momento opportuno, un tempo­crisis in un tempo­kairos: tempo­avvento di Dio nell’oggi della nostra storia. Tempo di grazia, che ci sospinge a una rinnovata sollecitudine per la 'città dell’uomo', prefiguratrice e anticipatrice nella giustizia della 'città di Dio'.
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