mercoledì 6 agosto 2014
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Nelle attuali discussioni sulla Riforma Franceschini di Sovrintendenze e Musei discussioni inevitabili e direi salutari, vista l’importanza del settore - sembra profilarsi una specie di campo diviso tra coloro che vogliono difendere il patrimonio artistico e musicale da ogni deriva economicista e coloro che,al contrario, non temono questo rischio, e in nome di alleggerimenti e riformismo appoggiano la filosofia del decreto. In realtà credo che si tratti di una divisione che non coglie la vera portata del problema, che è gigantesco, e supera anche i confini di qualsiasi correggibile riforma.  Siamo in un momento di passaggio epocale, che pochi sembra vogliano mettere a tema e che invece dovrebbe essere il problema guida su cui riformare gli assetti culturali. Siamo nel pieno di una crisi, di un decadimento, di una frana che interessa una certa idea di cultura e di sua trasmissione pubblica che ha in alcuni assunti che definirei illuministi i propri capisaldi. Primo: la cultura e il sapere sono una 'enciclopedia', ovvero una serie di conoscenze schedate e organizzate, di cui sono garanti gli intellettuali che stendono tale enciclopedia. Secondo assunto capitale: lo Stato si incarica di 'educare i cittadini', trasferendo tale enciclopedia organizzata in programmi scolastici, musei etc. ( «trasformar la plebe in cittadini» è il compito del Museo anche secondo lo storico dell’arte Antonio Paolucci, che però lo intende, qui in Italia, come «luogo diffuso» e grande mezzo di trasmissione dell’identità popolare). Beh, tutto questo sta saltando. Da tempo, in molti modi, i cittadini chiedono una vita culturale che si incarnì come 'esperienza' e non come enciclopedia ricevuta e assorbita. Lo si vede nella crisi di scuole e università, nella trasformazione dei metodi con cui musei e enti pubblici provano - anche per sopravvivere - a comunicare cultura. Nella presentazione su 'Il Sole 24 ore' del nuovo Museo del ’900 a Firenze si evoca l’immersione percettiva, il viaggio sensoriale. Tutte cose difficilmente associabili all’idea di Museo. Non a caso questo 'luogo' è in crisi. Chi studia i consumi culturali vede che, nonostante ripetute 'riforme' della scuola, tali consumi rimangano invariati, e bassi. Il problema non è solo italiano, il passaggio è epocale.  Questa crisi non è, a mio parere, negativa. Siamo al passaggio dal paradigma della cultura come enciclopedia trasmessa dallo Stato (o dai privati, non fa differenza in tal senso) alla richiesta di cultura come esperienza. E molti segnali ce lo saranno dicendo da tempo. Dai festival letterari e culturali, alla trasformazione dei musei in opere d’arte architettonica, evento essi stessi. Tutto ciò ha radici profonde e obbliga, appunto, a ripensare l’idea stessa di cultura. Non una serie di notizie o di abilità (pezzi di enciclopedia) da ricevere a scuola o in una gita a un museo, ma un’esperienza critica del mondo.  Qui viene il punto più affascinante e duro: se all’uomo occidentale è stata estirpata l’idea che la vita sia una avventura rischiosa (in cui si rischia di perdere il senso, l’anima, non solo e appena la pensione o un po’ di fama) perché tale uomo dovrebbe acculturarsi? Per esser un buon cittadino? Non basta, e ne abbiamo segni ovunque. Per uno status sociale migliore? Forse ciò vale ancora in luoghi in via di sviluppo, qua non pare proprio. E dunque perché acculturarsi, frequentare auctoritas del bello, dell’animo, della mente, se la vita non è un rischio, un viaggio in cui senza orientamento si perde qualcosa di vitale? Detta in sintesi - so che più d’uno sobbalzerà, ma lo invito a mettersi gli occhiali e a guardarsi intorno - se l’uomo non vive un rischio religioso ( anche laicamente inteso) nella esistenza non ha motivo per interessarsi alla cultura. Lo registrava un critico come George Steiner: in un’epoca di scetticismo, l’arte ha vita dura. Solo gli uomini con un senso del rischio nella vita ( nutrito da visione religiosa o pseudo religiosa come sono alcune grandi ideologie) guardano alla cultura con un interesse che non sia passatempo snob.  In crisi non sono appena le strutture dello Stato, ma l’idea di cultura che ha dominato e creato istituzioni da quasi trecento anni. Non a caso, le manifestazioni più vive di cultura si hanno dove gli uomini investono il proprio senso del rischio assoluto nell’incontro con auctores del passato o contemporanei. Senza la lettura di questa crisi - ripeto: per me salutare - si fa solo diversa burocrazia.
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