venerdì 4 dicembre 2015
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Dobbiamo essere orgogliosi dello spirito con cui il nostro Paese ha affrontato l’emergenza rifugiati. Nonostante qualche ombra gettata da isolati profittatori e qualche caso di chiusura egoistica, il servizio svolto dalle organizzazioni di assistenza e l’accoglienza delle comunità hanno offerto la prova di una generosità intelligente e prolungata. Ho però l’impressione che le autorità, sia a livello nazionale che regionale, non stiano monitorando con cura la situazione dei centri di accoglienza. Ho già segnalato i problemi, in passato, su questo giornale. Senza ottenere reazioni. Provo dunque a fare nuovamente il punto 'dal basso', partendo cioè dal mio limitato campo di osservazione. Anzitutto le criticità. A differenza di quanto accaduto nella prima fase di emergenza, i centri non riescono più a gestire gruppi omogenei di rifugiati. Le culture, le etnie, i Paesi rappresentati sono innumerevoli e non basta l’opera saltuaria dei mediatori culturali a unificare il tono della convivenza quotidiana. Per un verso, il confronto obbligato tra giovani di diverse provenienze costituisce una occasione di reciproca conoscenza e uno stimolo al superamento di diffidenze e incomprensioni. Ma questo confronto è in gran parte inefficace se si svolge al chiuso di un centro e non a contatto con le attività culturali e lavorative del territorio. Altro punto dolente è il numero. Quando una struttura pensata per trenta ospiti arriva ad averne abitualmente più di cinquanta, la condizione diventa estremamente difficile. Anche se il centro con cui collaboro è gestito con mano ferma e personale qualificato, il coinvolgimento degli ospiti nelle attività quotidiane – tutte all’interno – resta precario.  Valuto la pesantezza di questa situazione quando incontro i rifugiati che frequentano i miei corsi di italiano. Ci sono giovani africani che conoscono tre o quattro lingue europee, ma non possono esercitarle. Altri che hanno smesso di frequentare in patria corsi professionali perché la famiglia non poteva più sostenere le spese. Altri ancora esperti in un mestiere artigiano, ma condannati a lunga inazione. Tralascio i nomi per non fare torto a quelli che non ho ancora memorizzato. È comprensibile allora che qualcuno si stanchi e mi chieda: 'Perché imparare l’italiano se poi la domanda di rifugiato viene respinta?'. Tanto più che la risposta negativa – da parte di Commissioni estremamente severe – arriva dopo oltre un anno. Molte di queste criticità cadrebbero se la presenza di questi giovani, che non sono 'clandestini', ma persone note in fuga da zone di guerra, fosse trasformata in una somma di rinnovati 'progetti di cooperazione'. Ne dovrebbero far parte l’apprendimento obbligatorio della lingua (magari con la frequenza di una scuola pubblica) e l’esercizio (o il miglioramento) della attività professionale che i giovani hanno già svolto (quasi sempre in Libia). A quel punto il ritorno volontario nei Paesi d’origine, nel quadro di progetti finanziati in Italia, potrebbe utilmente sostituire quel proposito di respingimenti mascherati col denaro che è stato partorito nell’ultimo incontro di Malta. Sogni da un piccolo angolo d’Italia? Anche i sogni si possono trasformare in realtà, se veramente lo vogliamo.
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