Dà speranza quel popolo che diserta la guerra
giovedì 29 settembre 2022

Nelle foto dai droni ai valichi di frontiera tra Russia e Finlandia o Kazakistan, interminabili code di auto ferme, e uomini in bicicletta, e a piedi. Anche al confine con la Georgia, un luogo aspro e montagnoso di cui già si immagina il freddo delle notti di primo autunno, ecco il disperato eppure lento incolonnamento dei giovani riservisti russi che non vogliono andare in guerra. Su 'Repubblica' l’inviato Giampaolo Visetti scrive di un ragazzo di 23 anni portato in auto da San Pietroburgo a Groszny, non lontano da quella frontiera, dalla madre. In questa fuga che nell’obiettivo dei droni è solo una polverosa colonna d’auto, come sempre è il particolare che colpisce: quella donna che ha guidato per centinaia di chilometri per aiutare il figlio ad andarsene, andarsene in tempo. Chissà che silenzio in quel viaggio, e quante cose quei due avrebbero voluto dirsi, al commiato.

Chissà come quella madre guardava il ragazzo che si allontanava, lo zaino in spalla. Quanti fuggono? Difficile saperlo esattamente. I russi minimizzano, ma le autorità kazake dicono che solo da loro sono entrati in 98mila. Decine e decine di migliaia di giovani. Comunque, un movimento vistoso di popolo. Abbiamo ancora negli occhi le code dolenti dei profughi ucraini in marcia verso Occidente, in primavera. Eppure, ora è diverso. I giovani russi non fuggono da città sventrate, fuggono perché non vogliono andare al fronte: mentre il regime ormai li manda a cercare, casa per casa. E loro in questa guerra non credono, né nelle parole di Putin che li incita a partire. Per cosa? Per la gloria, per il potere della Russia? Non credono a nulla di tutto questo. Sanno di essere solo pedine da sacrificare in un cinico gioco.

Ma in queste colonne di ragazzi russi che partono, a volte anche con i figli bambini, non c’è forse una traccia di tempi nuovi? Ancora nell’ultima guerra la parola 'disertore' aveva un sapore ignobile. E in quella precedente i ragazzi che non volevano essere gettati in spaventose carneficine venivano fucilati sul campo. 'Disertori': e non se ne parlava più a casa, nelle famiglie. Disertore, era una indicibile parola. Del resto da sempre la cultura popolare era intrisa di questo senso dell’'onore', del dovere andare a uccidere e a morire. 'L’armata se ne va/ e se non partissi anch’io/ sarebbe una viltà...', era una canzone popolare del Risorgimento, che tuttavia i bambini degli anni 60 cantavano ancora nelle scuole italiane.

E l’intera immensa tradizione epica greca e latina che ci avrebbero insegnato poi, alle superiori, non cominciava con quei versi, 'Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta, che infiniti lutti addusse agli achei…'? E già in quei tre versi c’era l’idea che la guerra fosse qualcosa di tragico, eppure degno del canto di un Omero; qualcosa di feroce, eppure da celebrare. Certo, i figli dei fiori contestarono la guerra ma intanto i richiamati a ogni latitudine hanno continuato, salvo qualche eccezione, a partire. Guardate quegli incolonnamenti disarmati ai confini della Russia di Putin: in quanti sono, a non accettare di finire vittime immolate sull’altare delle ambizioni incontenibili di un potente. Fuggono, perché è inevitabile. Ma non se ne vergognano, e in questa loro coscienza non c’è qualcosa di profondamente nuovo? Tanti loro coetanei ucraini hanno difeso disperatamente nell’unico modo che è stato loro dato, con le armi, le donne, le famiglie, le case da un invasore.

Ma la guerra a cui sono chiamati i russi è diversa, è un’aggressione, e loro non ci stanno, non vogliono andare a uccidere e morire. Penso con tenerezza a quella madre che ha portato il figlio al confine con la Georgia, a tanti madri e padri come lei. Mi pare di poter capire che infinita pena sia, accompagnare un figlio a fuggire dal suo Paese. Poi penso a una foto che ho a casa, in una vecchia scatola: una tradotta militare di giovani alpini in partenza dall’Emilia, nel ’42, per la Russia. Dai finestrini come sorridevano, fieri; anche mio padre sorrideva. E io che sono nata dopo, che so come finì poi, là sul Don, e quanti di quei ragazzi non tornarono, mi sbalordivo nel vedere quel loro sorriso. Gli avevano raccontato che la guerra era bella, nobile, onorevole, e loro bene o male ci credevano e andavano ad attaccare un altro Paese.

'L’armata se ne va, e se non partissi anch’io sarebbe una viltà…', la cantavano forse quella vecchia canzone? Nelle foto delle colonne di riservisti russi in fuga c’è un popolo che, oggi, si rifiuta di obbedire a mire imperialiste, a egotismi patologici, ad avidità di potere smodate. Tante motivazioni diverse, certo, ma gente che non vuol morire e non vuole uccidere. Gente che vuole vivere. Un fiato nuovo: come, pure nella tragedia, il principio di una stagione diversa.

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