martedì 5 aprile 2011
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Abidjan è ormai un campo di battaglia e ancora una volta le armi prendono tristemente il sopravvento sulle ragioni della politica. La vastissima area metropolitana della capitale industriale ivoriana rappresenta la tappa finale, quella decisiva, di un scontro tra i due contendenti nella corsa alla massima carica dello Stato: il presidente uscente Laurent Gbagbo e quello internazionalmente riconosciuto come vincitore del ballottaggio del 28 novembre dello scorso anno, Alassane Ouattara. Un braccio di ferro che sta avendo conseguenze drammatiche per la popolazione ivoriana. Al momento è difficile avere un quadro esatto della situazione sul campo, anche perché si combatte in varie zone di Abidjan: i miliziani di Ouattara, dopo aver assunto il controllo della Rti, la radio-televisione di Stato, hanno spostato il campo d’azione nel quartiere residenziale di Cocody, nella zona settentrionale della città, prendendo d’assalto la residenza ufficiale di Gbagbo, difesa dalle unità di élite della Guardia repubblicana e dei commando chiamati Cecos. L’unico bilancio certo riguarda purtroppo la popolazione civile: sono centinaia le persone uccise, ferite, stuprate; migliaia quelle che hanno abbandonato tutto e si dirigono verso il confine con la Liberia in cerca di salvezza. Occorre però grande prudenza nel valutare la situazione, evitando soprattutto di dividere lo scenario tra "buoni" e "cattivi". Infatti, da una lettura attenta e obiettiva della situazione politica interna emergono responsabilità condivise, a cui andrebbero aggiunte non poche interferenze straniere. Basti pensare all’evidente appoggio offerto dal governo di Parigi a Ouattara, considerato paladino degli interessi francesi in Costa d’Avorio. Un’alleanza fortemente osteggiata da Gbagbo, col risultato che l’ex potenza coloniale ha contribuito notevolmente ad acuire la voragine che già separava i due contendenti ivoriani. Da rilevare che lo schema messo a punto dall’Unione Europea e dalle Nazioni Unite per costringere Gbagbo ad uscire di scena in forza del risultato elettorale, con la conseguente investitura di Ouattara, si è rivelato fallimentare. A nulla è valso lo sforzo dell’Unione Africana (Ua) di orientare il processo politico verso una nuova consultazione oppure una divisione del potere come è avvenuto tre anni fa in Kenya. Non è un caso se il premier keniano Raila Odinga fosse stato scelto come mediatore ufficiale dell’Ua, a capo di una missione speciale affidata a cinque Capi di Stato africani. A questo punto, considerando gli effetti della crisi per l’ordine pubblico, la coesione sociale e la governabilità del Paese, è necessario evitare che l’assalto finale si trasformi in una carneficina, considerando peraltro che Gbagbo ha utilizzato la popolazione civile come scudo per difendere i pochi scampoli di territorio che i suoi uomini ancora controllano. È chiaro che l’impasse si è acuita per le divisioni non solo interne alla Costa d’Avorio, ma anche quelle presenti sia nell’ambito dell’Ua – il governo angolano, ad esempio, avrebbe foraggiato di armi e munizioni Gbagbo – sia delle Nazioni Unite. Se da una parte gli Stati Uniti e l’Europa hanno sostenuto il nuovo corso di Ouattara, la Cina, che ha interessi commerciali importanti in Costa d’Avorio, in questi mesi ha mantenuto una posizione di relativa neutralità per evitare ripercussioni sugli affari legati al petrolio e al cacao di cui è produttore il Paese africano. A questo punto viene spontaneo chiedersi cosa avverrà con l’ormai imminente vittoria di Ouattara. Considerando che i seguaci di Gbagbo costituiscono comunque una quota consistente della popolazione insediata nella Costa d’Avorio meridionale, sarebbe lodevole se Ouattara s’impegnasse a formare un governo di unità nazionale coinvolgendo le componenti più significative della politica ivoriana, riunendo le forze armate rivali e creando una commissione di "verità e riconciliazione" come in Sudafrica. Solo una forte coalizione all’insegna della solidarietà nazionale potrebbe ricucire lo strappo. Alla comunità internazionale il compito di vigilare, evitando che la crisi ivoriana si prolunghi nel tempo con effetti drammatici sulla popolazione locale e l’intera regione dell’Africa Occidentale.
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