giovedì 28 dicembre 2017
Condivisione e aiuto reciproco per curare le ferite: una sfida culturale che per funzionare ha bisogno di coinvolgere la società civile. L'impegno della Chiesa nei territori
Un detenuto nel carcere romano di Regina Coeli (Reuters)

Un detenuto nel carcere romano di Regina Coeli (Reuters)

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«L’uomo non è il suo reato e il carcere non è l’unico modo per scontare la pena. Anzi, potrebbe addirittura non rispondere in modo adeguato alle indicazioni del dettato costituzionale, la 'rieducazione del condannato', se è vero che coloro che vivono l’espiazione della pena solo con la misura detentiva ricadono nella recidiva, per il 70%». Chi dice queste cose è di parte. Pietro Borrotzu fa il prete. E neanche un prete qualsiasi. Uno di quei sacerdoti che marciano con i lavoratori e accolgono i detenuti; insomma, uno che vive la propria vocazione con le mani sporche di umanità, alternando i modi spicci al silenzio sornione dei barbaricini. Recentemente, con la sua Associazione 'Ut Unum Sint' ha promosso un seminario sulla giustizia riparativa che ha lasciato il segno. Come lo lascia, ogni giorno, la cooperativa sociale con cui organizza nel Nuorese l’accoglienza dei familiari dei detenuti, dei detenuti in permesso premio, gli inserimenti lavorativi di ex-detenuti presso aziende agricole e commerciali, con la formula delle borse lavoro e della 'messa alla prova'...

Al seminario, cui hanno partecipato anche sette detenuti della Sezione Alta Sicurezza del carcere di Badu ’e Carros e quattro di Mamone, don Pietro ha fustigato la società delle tentazioni, che condanna chi vi cade. Tesi indigeribile per chi alla tentazione ha saputo resistere; perché più solido, o più timido; oppure perché la vita gli ha regalato quel che gli altri devono sudarsi e che alcuni decidono di prendersi con la violenza. Don Pietro fa il prete ma non vive sulla luna: sa bene che le sue idee non sono popolari. Sono le stesse di don Raffaele Grimaldi, ventitrè anni nel carcere di Secondigliano. «C’è un lungo percorso da fare – dichiara – e servono gli strumenti idonei. Occorre provvedere alla formazione dei mediatori, che hanno un ruolo fondamentale nella mediazione penale, non sempre facile. Essi si trovano davanti a persone che devono recuperare integralmente la loro vita e hanno bisogno di accompagnatori professionalmente preparati. Solo se si investe in questo processo innovativo, penale, processuale e culturale, c’è la possibilità di facilitare l’incontro tra la vittima e il reo». Il prossimo ottobre don Raffaele riunirà cappellani carcerari e associazioni di volontariato in un convegno nazionale che si terrà a Napoli. «Parleremo anche di giustizia riparativa, su cui c’è grande fermento, anche se è un cammino in salita e troppo spesso – annuncia – viene frainteso dalla società». Il riferimento è alla convinzione (errata) che la giustizia riparativa serva a convincere il magistrato di sorveglianza ad essere di manica larga nell’attribuzione dei permessi. «È tutt’altra cosa, è un percorso lungo e laborioso, doloroso, che porta il detenuto a rimettersi in discussione e che abbisogna della disponibilità della vittima o della famiglia della vittima, ma non condiziona il decorso della pena» afferma il cappellano.

Di questo percorso esiste anche un racconto, contenuto nel 'Libro dell’incontro', richiamato durante il seminario di Nuoro dall’avvocato Mariangela Torrente; ha spiegato che la giustizia riparativa «intende reintegrare nella società sia la vittima che il colpevole, ricomporre la ferita lasciata aperta dagli anni di piombo». Nelle famiglie delle vittime, anche in quel caso, c’era «una domanda di giustizia non esaurita: avvertivano la sensazione di una insufficienza, nonostante la condanna e le pene inflitte ai terroristi. Nel libro dell’incontro si applica 'la giustizia orizzontale' che è quella di reggere lo sguardo dell’altro, di chi mi sta di fronte e lasciarmi interrogare». In quel caso, ha funzionato.

Dell’incontro tra la vittima, con il suo dolore, e il reo, che deve 'chiamare per nome' il male che ha fatto, parla anche padre Francesco Occhetta nel volume La giustizia capovolta. Dal dolore alla riconciliazione. A Nuoro c’era anche il giovane gesuita della 'Civiltà Cattolica', a sostenere che attraverso un mediatore il reo deve 'riparare' ciò che ha rotto: lo chiede l’Europa e anche la legge italiana. Tuttavia padre Occhetta è convinto che il modello possa crescere solo dal basso. Per questo negli ultimi mesi è entrato nelle carceri di Benevento, Campobasso, Nuoro e Trani per incontrare i detenuti e gli operatori della giustizia. «Vedo crescere questo modello attraverso la riflessione, la pratica e soprattutto il dialogo con gli operatori di giustizia e Procuratori della Repubblica, Provveditori, Presidenti dei Tribunali di sorveglianza, Direttori delle carceri, i responsabili della Polizia penitenziaria ecc.» ha spiegato. La Chiesa nelle carceri ispira da tempo la sua azione a questo modello, generando attraverso le associazioni laicali esperienze di grande valore, ma c’è bisogno che le buone azioni si strutturino in cultura condivisa e in leggi: «La riparazione – sottolinea padre Occhetta – è un modello duro e occorre che le parti lo scelgano volontariamente; la mediazione non è negoziazione e l’utilizzo di misure alternative aiuterebbe la macchina della giustizia a diminuire i tempi dei processi e a umanizzare la riabilitazione durante l’espiazione della pena».

La 'giustizia riparativa' è innanzi tutto «un prodotto culturale, capace di promuovere percorsi di riconciliazione senza dimenticare le esigenze della giustizia 'retributiva' (incentrata sul rapporto tra il reato e la pena) e della giustizia 'riabilitativa' (più attenta al recupero del detenuto). Si tratta quindi prima di tutto di un modello culturale, che ha un nobile precedente nelle 'Commissioni Verità e Riconciliazione' del Sud Africa, volute da Nelson Mandela, in una fase di superamento del conflitto», si legge in un testo che richiama l’evento fondativo della giustizia riparativa ai nell’istituzione, in Canada, dei 'Programmi di riparazione vittima-colpevole'. Questi ultimi risalgono alla prima metà degli anni ’70 e introdussero nella sentenza di condanna stabilita dal giudice alcuni accordi di riparazione scaturiti da una serie di incontri tra rei e vittime di reato; secondo quest’interpretazione, la giustizia riparativa si inserisce quindi in un contesto di tentativi e di esperienze di soluzione della controversia orientati a una risposta riparativa, possibilmente concordata tra offensori, vittime e comunità civile, e, in prospettiva, potrebbe portare a una riforma. È l’auspicio di chi la coltiva, ci sono già delle sperimentazioni nell’ambito della giustizia minorile e anche l’istituto della 'messa alla prova' anche per gli adulti e la possibilità di estinguere il reato con 'lavori di pubblica utilità' si inscrivono in questo percorso.

Papa Francesco ha detto che bisogna «rendere giustizia alla vittima, non giustiziare l’aggressore», ma don Pietro non si fa illusioni. Sa che riannodare i fili spezzati con l’atto criminoso non è semplice né scontato, anche se è provato che la società ci guadagnerebbe, se è vero che scontare la pena con misure alternative abbatte la recidiva fino al 5%, mentre il 41 bis e l’ergastolo ostativo «non estinguono il danno provocato dal reato e non raggiungono l’obbiettivo di una società riconciliata». Riannodare i fili è l’immagine che si usa in Sardegna per rappresentare questo percorso, perché non è solo un’immagina ma anche un’attività: «Nei nostri 10 anni di attività nel mondo della detenzione – spiega suor Annalisa Garofalo, della cooperativa 'Ut unum sint' – abbiamo sempre fatto riferimento al progetto da cui è nata la nostra storia. 'Riannodare i fili spezzati dal reato' significa accompagnare coloro che hanno beneficiato del progetto in un cammino di libertà e di inserimento lavorativo e di rielaborazione del reato. Abbiamo sempre intrecciato 'fili' simbolicamente identificati con il vissuto di ciascuna persona inserita nel progetto. Abbiamo utilizzato diversi telai fino ad oggi. Ed ora utilizziamo telai per tessere tutti i tipi di filati e creare degli arazzi'. I colori rappresentano i vissuti dei detenuti e al centro c’è sempre il rosso, il colore delle vittime.

Da sapere: una sfida anche culturale che vuole riparare il danno

Con il termine «giustizia riparativa» si intende un percorso che ha l’obiettivo di permettere a chi ha commesso un reato di rimediare alle conseguenze delle sue azioni. Per fare questo è necessario attivare un processo che, grazie all’intervento di mediatori, coinvolga, purché vi aderiscano liberamente, le vittime (o i familiari) i rei, e la società civile. Non è un modo per accorciare la durata della pena, ma per tentare di 'riparare' un danno. Il crimine, in questo senso, viene visto anche come qualcosa che provoca la rottura di aspettative e legami sociali, e per questo ci si può attivare per tentare di ricomporre questa frattura.

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