sabato 17 dicembre 2022
Il nuovo ruolo globale di un’area che ha superato i tradizionali confini del Medio Oriente
Grattacieli a Doha, la capitale del Qatar. I Paesi del Golfo Persico hanno esteso la loro influenza nel mondo, creando legami ben oltre gli affari petroliferi

Grattacieli a Doha, la capitale del Qatar. I Paesi del Golfo Persico hanno esteso la loro influenza nel mondo, creando legami ben oltre gli affari petroliferi - Ansa

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In un decennio, il Golfo Persico si è trasformato da perno del Medio Oriente a centro di gravità globale. Un cambiamento di status e di ruolo che pesa sulla bilancia della politica internazionale: lo evidenzia il viaggio del presidente cinese Xi Jinping nel regno saudita. E se prima potevamo illuderci che i fatti dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, del Qatar o dell’Iran avessero a che fare solo con quella regione, al massimo con l’idealizzato “mondo islamico”, ora non è più così: ciò che accade nel Golfo riguarda anche noi. Al di là della grave indagine che scuote il Parlamento europeo, gli esempi recentissimi abbondano. C’è l’Arabia Saudita dietro la decisione dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (Opec) di non aumentare la produzione giornaliera di barili di greggio. Quindi di mantenere prezzi elevati. Germania e Francia hanno firmato accordi con il Qatar e gli Emirati Arabi per l’import di gas naturale liquefatto, in alternativa alla sanzionata Russia. L’Iran fornisce droni armati alla Russia che li utilizza in Ucraina; in più, gli iraniani hanno dispiegato addestratori delle Guardie della Rivoluzione Islamica (i noti pasdaran) nei territori ucraini occupati da Mosca.

Nel 2011, quando le cosiddette primavere arabe cambiarono il volto politico del Medio Oriente e del Nord Africa, il Golfo era il fulcro della regione. Un luogo di stabilità assai coinvolto, però, in quei tumulti. Davanti alle rivolte in Tunisia, Egitto, Libia, Siria e Yemen, le monarchie del Golfo avevano infatti scelto, spesso in competizione tra loro, di sostenere le forze del cambiamento o i tentativi contro-rivoluzionari. Riyadh, Abu Dhabi e Doha avevano così guadagnato influenza nella regione, come già l’Iran aveva fatto dal 2003, dopo la rimozione di Saddam Hussein dall’Iraq, rafforzando la rete delle milizie sciite tra Iraq, Libano, Siria, in parte Yemen. Eravamo entrati nel “Gulf moment”, come lo definì il politologo emiratino Abdulkhaleq Abdulla: i paesi del Golfo avevano la forza e la capacità di plasmare gli equilibri mediorientali, fino al Corno d’Africa.

Quel momento ha segnato l’inizio di una dinamica più profonda. In un recente editoriale lo scrittore Sultan Sooud Al Qassemi, membro della famiglia regnante dell’emirato di Sharjah (uno dei sette emirati che compongono gli Emirati Arabi Uniti), sottolinea che “questi stati”, riferendosi alle monarchie del Golfo, “non si percepiscono più come attori di secondo piano”, né a livello regionale né, tanto meno, su scala internazionale. Infatti sauditi, emiratini e qatarini vogliono trattare da pari a pari con Stati Uniti, Cina, Russia, paesi europei, consapevoli della propria forza economica e geopolitica. Tra molti equilibrismi, le monarchie lo stanno facendo anche adesso, nonostante la guerra della Russia all’Ucraina: rivendicando la politica della neutralità e delle alleanze parallele tra Europa e Asia, privilegiando gli interessi economici e commerciali nazionali, ottenendo qualche risultato diplomatico (vedi gli scambi di prigionieri tra russi e ucraini e tra russi e americani).


Germania e Francia hanno firmato di recente accordi con Doha e Abu Dhabi per l’import di gas naturale liquefatto, in alternativa alla sanzionata Russia. Ma l’Iran fornisce droni armati a Mosca che li utilizza nella guerra in Ucraina

Viene subito in mente l’episodio delle presunte telefonate senza risposta che il presidente americano Joe Biden avrebbe fatto al saudita Mohammed bin Salman Al Saud (il principe ereditario) e all’emiratino Mohammed bin Zayed Al Nahyan (il presidente), per discutere di petrolio all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina. Un aneddoto verosimile perché restituisce il senso della nuova centralità globale del Golfo, che mette alla prova le partnership tradizionali. Un’era diversa in cui, nonostante le monarchie dipendano ancora molto dagli americani per la loro sicurezza, le telefonate corrono lungo la linea Washington-Riyadh, meno su quella Riyadh-Washington.

D'altronde, il Golfo è davvero al centro della scena politica e mediatica. Il viaggio di Xi in Arabia Saudita segue temporalmente quello del presidente israeliano Isaac Herzog in Bahrein ed Emirati. Leader ed emissari europei sono in “viaggio quasi permanente” tra le monarchie per siglare accordi su idrocarburi e rinnovabili. Il Qatar ospita i contestati Mondiali di calcio e nel 2021 Dubai ha organizzato l’Expo. Come ha potuto il Golfo trasformarsi da perno del Medio Oriente a fulcro globale? Le parole-chiave sono tre: rendita, strategia e alleanze. La rendita da petrolio e gas ha permesso a questi paesi di accumulare, nonché spendere, capitali in casa e all’estero, guadagnando influenza. Ciò sta ora sostenendo la diversificazione economica “oltre gli idrocarburi” (come la Vision 2030 saudita), vero magnete per gli investimenti stranieri nonché scommessa generazionale per i nuovi e più giovani regnanti.

Il resto l’ha fatto lo scenario internazionale. La crescente domanda energetica di Cina e India ha tramutato il Golfo, Iran compreso, in “un serbatoio di energia per l’economia mondiale”, come ha rimarcato Xi Jinping. Politiche estere ambiziose, nonché il disimpegno politico statunitense dal Medio Oriente, hanno spinto le monarchie a “fare da sole” – anche con le armi, come in Yemen – potenziando le capacità militari e promuovendo geometrie di sicurezza regionali (con placet americano), favorite dagli Accordi di Abramo con Israele. Senza trascurare la forza politica dei messaggi universali come sport, arte, diplomazia culturale e dialogo interreligioso, con Papa Francesco accolto negli Emirati Arabi (2019) e in Bahrein (2022).


Le parole-chiave sono tre: rendita, strategia e alleanze. La rendita da petrolio e gas ha permesso di accumulare e spendere capitali, guadagnando influenza. Ciò sta ora sostenendo la diversificazione economica


Adesso, dopo un biennio di distensione regionale in cui i principali protagonisti (Emirati, Qatar, Turchia, Egitto) sono tornati a parlarsi e a cooperare, dense nubi politiche si stanno però addensando nel Golfo. E mai come stavolta ci riguardano da vicino: Europa e Asia dipendono più di ieri dal gas e dal petrolio della regione, dunque dalla sua stabilità. Ma l’Iran sta reprimendo con violenza le rivolte popolari, arricchisce l’uranio al 60% in due impianti, procedendo più spedito verso la bomba nucleare. La questione dei missili e dei droni non è mai stata affrontata, considerata un tabù dall’Iran che intanto negoziava sul nucleare. Ora, quei droni non vengono più usati “soltanto” dagli houthi pro-Teheran in Yemen, contro il territorio saudita ed emiratino, o contro le petroliere (come accaduto nel Golfo dell’Oman), ma sono impiegati dai russi in Ucraina, quindi ai confini della Nato. L’instabilità del Golfo è un rischio che potenze asiatiche, Cina in testa, e paesi europei non possono davvero permettersi. Neanche le monarchie, che infatti hanno mantenuto aperti canali di dialogo (gli ambasciatori emiratino e kuwaitiano sono tornati a Teheran nel 2022). Basti pensare alla sicurezza marittima, quindi al transito delle petroliere e delle metaniere che trasportano il gas naturale liquefatto verso Asia ed Europa percorrendo gli stretti di Hormuz (Golfo) e del Bab el-Mandeb (Mar Rosso, di fronte allo Yemen in guerra).

Proprio il rafforzamento della cooperazione militare fra Russia e Iran ha già cambiato il modo in cui Stati Uniti e soprattutto gli europei guardano all’Iran. Non è solo una questione di percezione, ma già di discorsi politici. «Ci abbiamo messo troppo tempo a comprendere», ha osservato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen rivolgendosi due settimane fa alla platea del Manama Dialogue in Bahrein. I missili e i droni iraniani rappresentano «un rischio di sicurezza, non soltanto per il Medio Oriente ma per tutti noi». Specie ora che la Repubblica Islamica vive una fortissima pressione dall’interno.

Non è certo una scoperta, ma adesso suona come una presa di coscienza, data la nuova centralità energetica, per Bruxelles, del Golfo. Il futuro inviato dell’Ue nella regione dovrà occuparsi molto di energia, ma anche di Iran. In pochi giorni, il Qatar ha siglato due accordi “pesanti” per l’export di gas: uno con la Cina (di 27 anni), uno con la Germania (di 15 anni). Ancora una volta le monarchie cercano un equilibrio tra Europa e Asia. Ed è anche un modo per tenere le nubi il più possibile lontane dal Golfo, nuovo centro di gravità globale.

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