martedì 13 ottobre 2009
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Selling England by the Pound, ovvero «vendendo l’Inghilterra alla libbra». Mai si rivela tanto profetico in questi giorni il titolo di una celebratissima canzone dei Genesis, ora che il premier Gordon Brown ha annunciato che nei prossimi due anni la Gran Bretagna si appresta a vendere beni pubblici per un totale di 16 miliardi di sterline (ai valori attuali 17,3 miliardi di euro). Scopo della «svendita» – così la definisce l’opposizione tory, visto che si ha urgenza di fare cassa per almeno 3 miliardi nel brevissimo termine – il tentativo di ripianare il deficit pubblico britannico. E di svendita, considerati i tempi e la bassa propensione al rischio da parte dei mercati, in un certo senso si tratta: basta vedere che nel paniere messo in vendita da Brown ci sono gioielli come la società di scommesse Tote, il 33 per cento del consorzio europeo per l’uranio Urenco, ma soprattutto la partecipazione nel capitale della società del tunnel sotto alla Manica e della ferrovia, la High Speed One, che lo percorre.Quest’ultima cessione ricopre un particolare valore simbolico: cedere le quote di Eurotunnel non sarà semplicemente un’operazione finanziaria, ma anche una cesura psicologica con il continente da parte di una nazione come quella britannica che mantiene con l’Europa un discontinuo rapporto di odio-amore, di attrazione-repulsione, partecipando all’Unione a Ventisette ma tenendosene gelosamente alla larga per ciò che concerne la moneta, il regime fiscale, i sistemi di compensazione, salvo poi candidare Tony Blair a futuro presidente della nuova Europa che uscirà dal Trattato di Lisbona. Le nude cifre tuttavia impongono una severa riflessione agli inglesi: il rapporto deficit-Pil – ancorché non vincolante per Londra – sfiora il 12%, quattro volte il precetto di Maastricht cui gli altri membri della Ue sono soggetti. Ed anche il debito pubblico è in forte crescita e punta, secondo molti analisti, a quota 100%. Qualcuno si è addirittura spinto sarcasticamente a definire l’Inghilterra «l’Islanda sul Tamigi», immaginando che Londra potrebbe ben presto seguire Reykjavik sulla via della bancarotta.Ma cosa sta accadendo? Stiamo davvero assistendo al declino inguaribile di una nazione che fino a qualche anno fa si autodefiniva con orgoglio Cool Britannia (l’Inghilterra che fa tendenza)? Secondo una stima del Fmi il crollo economico britannico sarà più profondo e prolungato di quello delle altre economie avanzate: il numero di disoccupati che chiedono sussidi è passato da 1,3 milioni (il 4,6% della forza lavoro) del 1999 a più di 2 milioni, ed è sulla strada dei 3 milioni, con un tasso che sfiora l’8%.La ricetta di Gordon Brown punta sulle dismissioni e le privatizzazioni. Modello che fu vittorioso con Margaret Thatcher negli anni Ottanta (se pure a prezzo di forte disoccupazione e alti tassi di interesse) e che i laburisti si son visti costretti ad adottare per fare cassa, sapendo intimamente che non basterà a rimettere in sesto i conti del Regno Unito, ma solo a tamponare qualche falla. Con un problema tuttora in cerca di una risposta: la progressiva deindustrializzazione, la trasformazione della Gran Bretagna in un’isola di servizi a capitale globalizzato, la quasi pervasiva scomparsa del made in England è stata davvero un bene? Risposta che forse non sarà Brown ma i tories di David Cameron a dover fornire l’anno prossimo, quando l’Inghilterra andrà alle urne.
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