giovedì 11 giugno 2020
Di fronte a un nuovo virus sconosciuto l’attenzione sugli esperti ha visto eccessi di fiducia e di critica. Ma la ricerca ha le sue logiche e i suoi limiti, che vanno compresi
Conflitto tra scienza e politica? Solo una questione di metodo

Solinas

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La pandemia ha stravolto per mesi tanti aspetti delle nostre esistenze. Compreso il rapporto con la scienza. I luoghi comuni volevano che in Italia avesse ancora corso una tradizione crociana ostile alla ricerca empirica e che, di conseguenza, la politica fatta soprattutto dai laureati in Scienze politiche o Diritto continuasse a ignorare le conoscenze provenienti dai laboratori. Poi è arrivato il Comitato tecnico-scientifico che, secondo la nuova vulgata, proprio con l’”avvocato del popolo” Giuseppe Conte è stato messo al posto di comando e ha dettato all’intero Paese le cose da fare e quelle da non fare, dall’inizio del contagio fino a oggi. Con effetti – buoni o cattivi, lo valuteremo serenamente più in là – che si prolungheranno per molto tempo.

Una nemesi, un paradosso o, forse, semplicemente un ritratto infedele di come stanno veramente le cose. Gli esperti hanno esautorato i decisori designati? Siamo diventati acritici adoratori della scienza, incantati davanti ai virologi superstar di ogni talk show? Oppure la parabola si è compiuta in fretta e dalla ritrovata fiducia nei ricercatori si è tornati alla diffidenza dovuta alla discordanza tra voci diverse su aspetti chiave del contagio? Per non parlare dell’insoddisfazione rispetto all’Oms, una volta che abbiamo scoperto l’esistenza e il ruolo dell’Agenzia Onu per la salute.

Riavvolgere il nastro può essere utile per orientarsi in una materia intricata. Il primo e fondamentale equivoco, spesso alla base di impazienza e incomprensioni, sta proprio nella parola chiave: “scienza”. La definizione più corretta e promettente per inquadrarla è quella di “metodo per la conoscenza”. In questo senso, anche l’aggettivo “scientifico” acquista un senso più chiaro. La scienza cerca di comprendere un fenomeno o una porzione della realtà con l’osservazione ripetibile e la misurazione oggettiva (ovvero, non impressioni, pareri, testimonianze oppure esperienze uniche o di singoli individui). L’ipotesi e la verifica sperimentale sono gli strumenti che permettono di arrivare alla previsione che, in genere, ci permette di affermare che abbiamo capito il fenomeno in questione. Tutto questo, nel tempo e non senza correzioni continue, si trasforma in conoscenza consolidata, quella che si può leggere in un manuale universitario, per esempio. Ciò vale più facilmente per discipline come la fisica – non a caso questa concezione della scienza si chiama anche galileiana, in omaggio ai geniali progressi dovuti a Galileo Galilei.

Se congetture e confutazioni, come il titolo di una famosa opera del filosofo della scienza Karl Popper, sono il modo di procedere della scienza ideale, che avanza falsificando le proprie teorie precedenti, approssimandosi poco alla volta a una comprensione sempre più precisa e completa, la realtà di discipline in cui non vigono leggi senza eccezioni, come la biologia e la medicina, è assai più complessa. In fisica e chimica sappiamo che la luce viaggia sempre alla stessa velocità o che un certo elemento solido fonde a una determinata temperatura, nella clinica accade che approssimativamente la maggior parte dei farmaci non agisce adeguatamente su una quota di pazienti vicina al 10%. Inoltre, la scienza contemporanea è diventata iperspecializzata: nessuno può padroneggiare tutto ciò che serve per fare ricerca se non in un piccolo ambito; ed è prevalente anche ciò che viene chiamato “big science”, ovvero un’opera collettiva in cui, pure dentro quell’ambito ristretto, ci si divide i ruoli. Articoli importanti, compresi quelli sul SARS–CoV–2 che sono stati molto discussi in queste settimane, portano la firma di decine di ricercatori, ciascuno impegnato su una piccola porzione dell’esperimento.

Tenendo a mente questo quadro generale, si cominciano a chiarire le dinamiche di cui siamo stati spettatori, a volte confusi o a volte irritati. Di fronte a un nuovo virus è stato giocoforza ricorrere al parere degli scienziati. Le epidemie sono antiche quanto l’uomo e da secoli i tipi di arma che abbiamo a disposizione sono quelli ben noti, magari più tecnologicamente evoluti o potenti, ma non diversi: l’isolamento dei malati, la quarantena dei possibili contagiati, le misure di igiene, i farmaci e i vaccini. In assenza degli ultimi due, come nel caso del Covid, non restava che ricorrere alle prime misure. Se i rappresentanti politici hanno un’autorità che viene dalla delega democratica, gli esperti hanno un’autorità epistemica, ovvero sono gli unici detentori di una conoscenza pertinente ed efficace rispetto al caso che si sta considerando. Nessuno però aveva mai “chiuso” interi Paesi per lunghi periodi, quindi nemmeno gli esperti potevano prevederne tutte le conseguenze, che non sono soltanto sanitarie. Qui infatti si è manifestata la prima divaricazione tra scienziati e tra scienziati e politici, con Paesi che hanno provato vie diverse, dall’Italia alla Svezia, passando per la Gran Bretagna e gli Usa, con tutte le implicazioni che abbiamo provato od osservato.

La malattia sostanzialmente incurabile che mieteva vittime a centinaia al giorno (in Italia) non poteva che focalizzare l’attenzione e l’impegno di tutta la comunità dei ricercatori biomedici, ciascuno con prospettive e competenze diverse. Uno sforzo lodevole che ha però fatto emergere la scienza nella sua fase cosiddetta “rivoluzionaria”, nella quale non ci sono certezze. Si formulano quindi molte ipotesi, che per gran parte verranno smentite. In queste situazioni il rischio è di prendere per sicuro e definitivo ciò che non lo può essere, pena la delusione di vedere presto sconfessata la scoperta che ci dava speranza. Gli esperti, forti della loro autorità, dovrebbero essere più prudenti nelle loro esternazioni, a rischio di deludere chi pretende verità apodittiche (e il sistema dei media qui ha certo la sua responsabilità). Quando si parla di nuove cure, siamo invece nel campo dell’intuizione e dell’arte medica, necessarie nell’immediato, ma poi da verificare con il metodo scientifico degli esperimenti in doppio cieco: un gruppo di pazienti ottiene il trattamento, l’altro un placebo e nessuno, né i medici in corsia né i pazienti, sanno chi prende che cosa. I risultati possono pertanto spegnere gli entusiasmi iniziali. Ecco perché la prudenza è la migliore consigliera, anche se contraddice gli auspici e sembra penalizzare gli sperimentatori “coraggiosi”.

C'è poi la “scienza” come istituzione, come gruppo sociale. Si tratta dell’insieme di coloro che fanno ricerca, la dirigono e di essa vivono. Qui la sociologia ci può dire di più dei controlli sperimentali. Fanno capolino le invidie e le rivalità, la corsa ai fondi e alla notorietà. Uno spettacolo non sempre edificante, che tuttavia nulla toglie al rigore degli studi o all’avanzamento delle conoscenze, che dovrebbero essere giudicati in quanto tali. Così è partita anche la sfida per collocare tra i primi le proprie ricerche sulle riviste più importanti (uno dei mantra per gli scienziati è “pubblica o muori”). Ciò ha finito per rendere, si spera solo temporaneamente, meno rigoroso il filtro che separa i migliori lavori da quelli più affrettati (è il caso dell’articolo sulla presunta pericolosità dell’idrossiclorochina ritirato da Lancet).

E qui entra pure l’Organizzazione mondiale della sanità. Che è un ibrido tra i due sensi di scienza, in quanto organismo che dovrebbe tenere alti gli standard della ricerca e promuoverli insieme a un’azione sociale e politica a favore della salute. Di qui il cortocircuito sulle asserite “complicità” con i silenzi cinesi o le raccomandazioni alla popolazione in apparenza contraddittorie. In definitiva, capire non vuol dire assolvere, e pure la scienza uscirà dalla crisi del coronavirus con un fardello di insegnamenti e di storture da correggere. Dalla sua ha il vantaggio di procedere per pubbliche approssimazioni e correzioni. Non è uno scontro di pareri. Alla fine, qualcuno ha ragione, gli altri hanno torto e questi ultimi devono adeguarsi. Però ci vuole tempo e intanto le decisioni vanno prese da tutta la comunità secondo le migliori procedure, non necessariamente dando su tutto l’ultima parola agli esperti biomedici. Gli errori compiuti in Gran Bretagna o le discriminazioni introdotte in alcuni Stati americani rispetto all’accesso dei disabili alle terapie intensive mostrano che l’autorità epistemica non è l’unica che deve guidare una società democratica e pluralista.

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