sabato 18 luglio 2009
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Possiamo immaginarci l’agitazione nella villetta di Les Combes. Il Pa­pa che cade, l’allarme dei suoi medici, e quel polso malamente contuso e do­lorante. E ieri mattina la scelta, co­munque, di andare in ospedale in au­to, e di entrare con le proprie gambe; quasi già a dire, con l’evidenza dei fat­ti: sto bene, non è nulla di grave. I pa­zienti del pronto soccorso di Aosta sba­lorditi, alla vista di quello straordinario 'collega'. L’accorrere dei medici, men­tre il primo lancio delle agenzie – «Il Pa­pa in ospedale» – fa sussultare le reda­zioni dei giornali nella mattina pigra di luglio. Poi, fatta la fila, lastre, check up, tutto a posto – tranne quel polso frat­turato. La sala operatoria, l’intervento, semplice ma forse con un soffio di an­sia nel cuore dei medici: quell’uomo sotto i ferri, schedato come «paziente i­gnoto 917», è il Papa. E poi il bollettino benigno, e Benedetto che lascia l’ospe­dale salutando con la sinistra la picco­la folla di chi, saputo, è accorso, e i gior­nalisti trafelati. È stata solo una caduta banale, che, come accade a una certa età, ha spezzato l’osso reso fragile da­gli 82 anni. Ne resta il 'gesso' da por­tare per un mese; e forse poi quelle pic­cole noie che chiunque si è fratturato conosce, come l’avvertire che verrà a piovere, prima che lo dica il barome­tro: dalle fitte sottili e petulanti delle os­sa, recriminanti pure se perfettamente riaggiustate. Tutto bene, comunque: tanto che, u­scito dalla sala operatoria, il chirurgo ha annunciato che Benedetto XVI po­trà riprendere a suonare il piano per­fettamente. Del che siamo lieti. Anche se il polso, e dunque la mano destra, al Papa servono, prima che per il pia­noforte, per cose ancora più importanti. Quella è la mano che in tutto il mondo, con affetto di figli, uomini e donne cer­cano per stringerla e deporvi un bacio. Ed è quella che gli serve per scrivere. Ma, prima di tutto, per benedire. È il largo gesto domenicale dalla finestra di san Pietro; quella croce tracciata sopra Roma, che conclude la settimana e ne apre una nuova, mentre il suo eco por­tato dalle radio si allarga nei più lonta­ni angoli del pianeta. Sono i gesti della Messa e della consacrazione, che ogni mattina ripetono, nella mani del Papa, il sacrificio di Cristo. E poi, la mano destra è quella che scri­ve. Con la penna, o al computer, è lei che traccia, o che corre sulla tastiera. Benedetto XVI scrive moltissimo. Deus caritas est, Spe salvi, Caritas in verita­te. Tre encicliche, e quanto dense e ca­riche di significato, in pochi anni. E an­cora il suo 'Gesù di Nazaret' (la prima parte già data alle stampe e alla rifles­sione di tantissimi e la seconda ancora in stesura, anche in questi giorni di va­canza). Certo, un Papa non manca di chi possa fargli da scrivano. Ma non è lo stesso, dettare a un altro o invece la­vorare soli, nel docile obbedire della de­stra che trascrive il pensiero, e si ferma, cancella, e riprende, compagna e qua­si complice. E ci piace pensare che an­che il Papa, come accade a noi gente normale, sovrappensiero cercherà di ri­prendere la penna in mano, e poi ritro­vando la rigidità del 'gesso' sbufferà un po’ infastidito – come facciamo noi altri, in questi casi. Ma quanto manca? – chiederà forse impaziente – quanti giorni mancano ancora? Venti, trenta, giusto il tempo della pie­na estate. Una forzata pausa di quiete – i pensieri che attendono d’esser scrit­ti come in attesa, in coda nella mente del Papa. Buona convalescenza, San­tità. Forse Qualcuno ha deciso che il suo lavoro merita più riposo, questa e­state, di quanto lei era disposto a con­cedersene. E con quel Qualcuno, lei lo sa bene, non si discute. Noi, aspettere­mo: che la sua mano torni a scrivere le parole che ha da dirci. Ricche, pacate, piene. Che torni a tracciare, ogni do­menica, quella larga croce benedicen­te, sopra il cielo di Roma.
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