mercoledì 24 aprile 2019
Dalle piazze allagate di Rotterdam alle isole ambientali: così i centri urbani più innovativi si adattano imparando dalla natura. I giovani alla guida della trasformazione
L'High Line di New York, la vecchia ferrovia abbandonata trasformata in parco urbano

L'High Line di New York, la vecchia ferrovia abbandonata trasformata in parco urbano

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Le piazze d’acqua a Rotterdam sono l’invenzione dell’assurdo. Mentre il resto del mondo lavora per far defluire il più possibile le acque piovane, lì si è rovesciata la logica. Le piazze sono predisposte per allagarsi. Quando c’è bel tempo sono spazi pubblici attrezzati per il gioco dei bambini. Se le piogge sono intense – fenomeno sempre più frequente – si trasformano in temporanei bacini di raccolta e stoccaggio dell’acqua, alleggerendo così la pressione sulle falde e scongiurando gli allagamenti. Quello che all’inizio era solo il piccolo progetto di una società olandese, con gli anni è diventato uno dei modi della città di rispondere alle variazioni climatiche. I centri urbani più innovativi del ventunesimo secolo imparano dalla natura. Si adattano ai cambiamenti. Danno nuova vita a vecchie infrastrutture degradate. Valorizzano processi creativi che partono dal basso, dall’iniziativa di cittadini, quartieri, associazioni.

Fino a pochi anni fa l’High Line di New York era solo una vecchia ferrovia abbandonata. Una ferita inferta alla città, lungo la quale la natura si era ripresa il suo spazio. Oggi, grazie alla tenacia di un’associazione e di un gruppo di architetti, è un parco sopraelevato che alterna erbe spontanee a piante coltivate e orti urbani. Il vecchio mostro di ferro si è trasformato in un corridoio ambientale, in luogo del tempo libero e seconda attrazione turistica della grande mela. I centri urbani sono considerati i primi responsabili dei cambiamenti climatici. Consumano il 75% delle risorse naturali e sono responsabili di oltre il 70% delle emissioni globali di CO2. Da essi originano molti dei comportamenti più distruttivi per il pianeta e gran parte delle politiche nemiche della natura.

Un impatto destinato a essere sempre più rilevante, se si considera che entro il 2030 il 60% della popolazione mondiale sarà urbanizzata. D’altra parte, oggi sono proprio le metropoli a essere laboratori possibili e praticabili per i cambiamenti ecologici. Non è un caso che Fridays for future, l’iniziativa che ha portato in piazza ragazzi di tutto il mondo in difesa della natura, sia partita dalle città. Il 19 aprile Greta Thunberg – la sedicenne attivista svedese diventata simbolo di questo nuovo ambientalismo – è stata a Roma. E, mentre c’è chi analizza questo movimento chiedendosi fin dove arriverà, c’è chi sta intercettando un nuovo fenomeno di reazione creativa che parte dai luoghi a più alto impatto ambientale del pianeta.

In 'Biodivercity: città aperte, creative e sostenibili che cambiano il mondo' (Giunti), Elena Granata, architetto a urbanista, professore associato al Politecnico di Milano, sostiene che a rendere le metropoli i principali attori del cambiamento sia la loro biodiversità. «La varietà di persone, con le loro disuguaglianze e contraddizioni, con le loro lingue e culture che si mescolano e confliggono, la prossimità che diventa rete e porta alla condivisione di beni e servizi: tutto questo rende le città un laboratorio accelerato di cambiamento» afferma Granata, che nel libro racconta i casi più eclatanti di rigenerazione urbana, che vanno nella direzione di una vita più sostenibile e in armonia con la natura. Una vita più felice, dopotutto. Ed è proprio questa la chiave con la quale leggere, secondo la docente del Politecnico, il movimento che si è aggregato attorno a Greta Thunberg. «La risposta degli studenti è stata istintiva perché i temi ambientali sono sentiti a livello di coscienza di base. Io ho tre figli dai 13 ai 18 anni e tutti e tre sono andati in manifestazione. È una generazione pronta, e lo sapevamo.

Da anni, almeno dal 2015, in università assistiamo a un aumento delle domande di iscrizione ad agraria e a un interesse sempre crescente per i temi legati alla sostenibilità. C’è chi dice che i ragazzi dovrebbero passare dalla protesta al cambiamento degli stili di vita. Ma questa è una strada già percorsa, che riguarda una nicchia. La novità di questo movimento è che ha portato in piazza i 'non convinti', non chi è cresciuto in un contesto eticamente orientato o ha respirato in famiglia determinati valori sociali o di consumo critico. Le città stanno abbracciando modi di abitare, muoversi, studiare completamente diversi e a fare presa sarà la seduzione nei confronti di questi modelli. Il cambiamento degli stili di vita avverrà di conseguenza. Sta già avvenendo. Molti dei nostri ragazzi, per esempio, non sono interessati a possedere un’auto o a fare la patente».

Un certo ambientalismo colpevolizzante, che parlava dell’essere umano come 'cancro' del pianeta, secondo la docente del Politecnico, non ha più nulla da dire a questa generazione. «Si sta risvegliando un modo di raccontare il rapporto con la natura e con l’ambiente che ha un linguaggio completamente diverso. Il movimento di Greta è lucidissimo nella critica ma non è moralista, a riprova che si può es- sere determinati nell’indicare il problema senza colpevolizzare il mondo, perché non serve». A fare da spartiacque rispetto a un certo ambientalismo del passato è stata la Laudato si’ di papa Francesco. «È riuscita, con una lucidità che non ho trovato in nessun altro testo, a congiungere quello che era disgiunto: la questione ambientale e quella sociale, le ragioni dell’uomo e quelle dell’ambiente, che sono le stesse», afferma Granata.

La pensa così anche Piero Pellizzaro, 38 anni, manager della resilienza del Comune di Milano. La sua è una nuova figura professionale, che nasce all’interno del progetto internazionale '100 Resilient cities', finanziato da Rockefeller Foundation. «La Laudato si’ ha segnato un nuovo approccio, e lo dico da non credente», afferma. «Ha parlato di scienza senza essere un testo scientifico. Ha unito il piano tecnico e quello etico».

Il manager della resilienza lavora in modo trasversale ai diversi uffici dell’amministrazione pubblica. «Stiamo concludendo in questi giorni la strategia di resilienza del Comune», spiega Pellizzaro. «E con l’ufficio Urbanistica abbiamo dato il nostro contributo al piano di governo del territorio». L’approccio è multisettoriale: «Quando ripensiamo una piazza esposta al calore, è necessario progettare elementi di verde, ma anche favorire il dialogo fra le persone inserendo panchine o strumenti di gioco, attivare diversi tipi di mobilità, agire sul piano educativo».

Non ha dubbi che le città svolgano un ruolo chiave nella lotta al cambiamento climatico. «Molti sindaci si sono impegnati fin dal 2008. E pochi giorni fa Milano, Torino e Genova hanno firmato un patto per migliorare le politiche di resilienza. Mentre i governi si prendono tempo per capire se l’interpretazione di alcuni fenomeni sia giusta o sbagliata, le città devono rispondere nel quotidiano all’aumento di temperatura o a precipitazioni elevate. Non possono permettersi di aspettare, anche perché devono evitare che le fasce più deboli della popolazione soffrano o che siano interrotte funzioni essenziali». Fondamentale è fare rete con altre città. «È un motore essenziale: si crea quello spirito di comunità che permette di confrontare le buone pratiche e fare passi avanti».

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