mercoledì 14 agosto 2013
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​Immaginiamo un fermo, inflessibile, dogmatico inquisitore. Un cacciatore di peccati, capace di snidarli con consumata, implacabile perizia. Si trova di fronte a una quarantina di giovani professionisti del calcio che guadagnano in un solo anno più di quanto un operaio guadagna in una vita intera. Ma sì, eccoli finalmente inquadrati nel mirino i viziati (e talvolta viziosi...) divi del pallone, osannati dalle folle, milionari ad appena vent’anni. L’inquisitore ha solo l’imbarazzo della scelta: quale orecchio tirar loro per primo? E poi il calcio, con le sue sordide storie di partite comprate e vendute, le infinite e vane chiacchiere radiofoniche e televisive, le violenze mai del tutto debellate dagli spalti, i mariti che per lui trascurano le mogli, tutti appiccicati al televisore persi dietro a uno stupido pallone che rotola...Guardiamo invece papa Francesco, ieri, nella Sala Clementina. Che sia un paladino della verità è assodato. Ma che cosa dice ai migliori (e più pagati) calciatori d’Italia e d’Argentina – le sue due patrie – che stasera si sfidano in amichevole a Roma? In sostanza, dà loro una sola raccomandazione, positiva e non negativa: divertitevi! Non è un ingenuo, Bergoglio. E conosce bene il calcio, innanzitutto da tifoso, che da piccino il papà portava allo stadio a vedere le partite del San Lorenzo. Sa perfettamente che a quei livelli è una professione ed è impossibile che non lo sia, compresi i suoi lauti stipendi. Una professione difficile e precaria, perché basta poco per passare dalla gloria all’oblio. Un affare capace di spostare somme gigantesche di denaro. E allora, come pretendere che possa esserci spazio per il divertimento?In realtà, papa Francesco parla così proprio perché conosce bene il calcio e i calciatori. Sa quali siano le loro radici e la loro vocazione. Per questo ricorda: siete professionisti ma, nel cuore, restate dei dilettanti che giocano appunto per «diletto», con lo spirito dell’amateur, di chi esclude il lucro e fa quel che fa per il semplice gusto di farlo, perché farlo lo rende felice. Che altro significa infatti sport? In origine c’è il latino deportare, «uscire fuori dalla porta», ossia abbandonare le attività proprie della città – il commercio, l’artigianato, i servizi, la legge... il lavoro – per svagarsi. Diventerà desporter in francese e disport (più brevemente sport) in inglese: divertimento, diporto. Il calcio poi è un «giuoco» (con la u), come ricorda la lettera gi di Figc, la sigla della Federazione.Divertirsi e far divertire, dunque. Questa è la missione originaria. Se te la dimentichi, perdi te stesso e togli sapore, e senso, al gioco. Solo se mantieni lo spirito del dilettante – colui che agisce per diletto, non per interesse – produci «bellezza, gratuità e cameratismo». Lo sport, a partire dal calcio, se restituito a se stesso è l’immagine di un mondo fondato su bellezza, gratuità e cameratismo, in cui (parole testuali di Bergoglio) «non c’è posto per l’individualismo». Il business? A certi livelli è necessario, ma non deve far perdere al calcio il suo carattere sportivo. Potremmo dire: il business è un semplice mezzo, uno strumento, non il fine; il business è in funzione del calcio inteso come divertimento e bellezza, non viceversa. Una visione rivoluzionaria? Sì, ma presentata con il sorriso, il consueto tono di voce affabile, senza alcuna aggressività, senza lanciare accuse... tutto il contrario di quanto avrebbe fatto il solerte inquisitore. Ma molto, molto più intelligente ed efficace.
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