mercoledì 9 dicembre 2015
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Caro direttore,
perché i docenti continuano ad affliggere gli studenti e i loro famigliari con l’assurda pratica dei compiti per le vacanze? Perché non riconoscono il diritto al riposo, allo svago, al gioco che loro stessi possono concedersi durante le vacanze degli studenti? Perché impediscono alle famiglie di ritrovarsi serenamente, senza lo stress di compiti soverchianti e inutili che causano sofferenze, litigi, pianti, punizioni, rinunce dolorose, rabbia. Bambini e ragazzi chiusi in casa, chini sui libri, impegnati per ore e ore nello svolgimento di compiti che non potranno essere corretti (i docenti non avrebbero tempo per altro), che non determineranno effetti apprezzabili rispetto all’acquisizione delle competenze attese e necessarie, che non lasceranno segno alcuno (non c’è insegnamento: si tratta di un sapere usa e getta), che aggraveranno la condizione di chi sia già svantaggiato, che penalizzeranno chi viva in un ambiente deprivato, che produrranno solo odio per lo studio e per la scuola... Perché un tale, pervicace accanimento riconducibile a una “pedagogia della sofferenza” bandita da Indicazioni e Programmi ministeriali, dalla Convenzione sui diritti dei minori, dal buon senso, da quel minino di rispetto e sensibilità che qualsiasi adulto, tanto più se educatore, dovrebbe avere? Perché?
 
Maurizio Parodi - Dirigente scolastico
So che lei, caro professor Parodi, si spende da tempo e all’insegna dell’inequivocabile slogan “Basta compiti!” su questo fronte. Ma devo concludere che se un dirigente scolastico come lei si rivolge a me, giornalista, con tutti i “perché?” che si possono leggere nella sua lettera, il nodo è diventato davvero intricato… Io posso parlare della cosa e magari far riflettere, lei invece può agire, può creare mentalità, può avviare buone pratiche… Perciò mi sento soltanto di risponderle con un ricordo. La mia esperienza personale di (ormai antico) studente di una scuola nella quale non si davano certo meno compiti di quanto si faccia adesso. Ebbene, i “carichi” per le vacanze sono sempre arrivati e non mi hanno mai fatto bene. Anche perché i compiti più belli e utili che ho fatto – non solo durante le vacanze – non sono quasi mai stati quelli ricevuti, ma quelli che mi sono liberamente dato io stesso per approfondire qualcosa che in classe mi aveva incuriosito o appassionato. E la cosa più importante è che spesso quei liberi compiti non li ho svolti in solitudine, ma con qualche mio compagno o compagna di classe, stimolato a questo saggiamente da alcuni (solo alcuni!) degli insegnanti che ho via via incontrato. Certo, confesso subito di aver avuto una grande fortuna, anzi un privilegio: avere la casa piena di libri (i miei genitori sono stati, a loro volta, insegnanti) e anche di giornali, oltre che di fratelli (eravamo in quattro) e di allievi e allieve di mio padre e mia madre. Ho imparato presto a studiare assieme ad altri. Mi è rimasta la consapevolezza che, proprio perché non tutte le case sono così ricche di libri e così “aperte”, scuole e biblioteche dovrebbero “abitare” sempre lo stesso luogo o almeno essere molto vicine e, comunque, idealmente collegate. Lo penso ancora, a maggior ragione in questo tempo che si fa sempre più digitale. La cultura è un pane che nutre anche in solitudine e può essere mangiato più per dovere che per piacere, ma quando è spezzato per gioia e fame vere e si impara a condividerlo è – come tutti i pani – infinitamente più buono.
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