domenica 11 ottobre 2009
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Di fronte alla muta presenza di tante bare, che hanno raccolto le povere spoglie delle vittime dell’alluvione abbattuta­si a Messina nella notte del 1° ot­tobre, non rimangono che le la­crime e la preghiera. Le lacrime di tutti, dei familiari in primo luogo, oggi svuotati di ogni cosa, degli affetti più cari e dei piccoli grandi beni che ogni casa custodisce, frutto dei ri­sparmi di una intera vita. E poi il dolore per la scomparsa del pro­prio paese, in cui si è cresciuti, con gli occhi davanti al mare e alle spalle – almeno sino a qual­che decennio fa – le colline av­volte da una folta vegetazione e da terrazzamenti di una agricol­tura fertile, che le rendevano sentinelle contro le impervie condizioni del tempo. E anche le lacrime di una città, devastata da antiche e nuove ferite, stretta e muta di fronte a questo collasso, espressione violenta di una ca­lamità naturale e dell’imprevi­denza degli uomini, segno di u­na rottura e di una capitolazio­ne dello spirito, quando davve­ro sembra che tutto si fermi e che non ci sia nulla più da dire. L’irrecuperabile perdita di tante vite umane, seppellite da quel fango diventato il ventre di un mondo opaco in cui riversare do­lore e rabbia, demagogia e qua­lunquismo, richiede il tempo della memoria, mediante cui continuare a onorare le vittime. Volti da guardare a uno a uno: li­neamenti sereni, impressi nelle foto rimaste, che ci restituisco­no bambini, coniugi anziani, giovani e ragazze, madri, padri, nonni. E nomi da scandire a uno a uno: come è stato fatto, all’ini­zio della celebrazione liturgica in Duomo, dai parroci dei paesi colpiti. Le lacrime di tutti, epifania del­la compassione senza misura e senza esclusione, hanno trovato nel silenzio composto e com­mosso delle migliaia di persone accorse in Cattedrale riunite nel­la preghiera corale, un momen­to solenne, che ha avuto il suo acme con l’omelia dell’arcive­scovo, monsignor Calogero La Piana. Con forza e con misura queste parole autorevoli e pa­terne hanno toccato l’anima di tutti, quando hanno invocato per i defunti la promessa di vita eterna nelle braccia del Padre, e per i sopravvissuti la richiesta pressante di sostegno spirituale e materiale, soprattutto di spe­ranza, di diritto a reclamare una messa in sicurezza del proprio territorio, così che la vita possa ricominciare. L’omelia dell’arcivescovo si è co­sì snodata su questo doppio re­gistro: da un lato il pensiero con­templativo del grido di abban­dono del Figlio sulla croce, ico­na universale del dolore di tutte le vittime e di tutte le violenze naturali e storiche. Dall’altro il rifiuto del clamore irriverente di chi continua a strumentalizzare responsabilità sociali e politiche di questa povera terra. Il grido si­lenzioso delle vittime, ha conti­nuato l’arcivescovo, sia invece di richiamo a una speranza forte, coltivata dalla promessa di ri­scatto dell’amore di Dio verso i suoi figli e alimentata dalla fidu­cia che le istituzioni si incarichi­no di gestire con oculatezza e lungimiranza un territorio trop­pe volte deturpato dall’incuria degli uomini e dalle distrazioni della politica, «questo territorio unico e affascinante» (come ha detto monsignor La Piana, più volte sostenuto dal caldo ap­plauso della sua gente). Le lacrime e la preghiera nella Cattedrale di Messina hanno co­sì potuto rintracciare nelle paro­le del suo pastore una direzione di significato profondo, incar­nando il bisogno di estrema compassione per i morti e di e­strema solidarietà per i feriti e i sopravvissuti, perché ritrovino, nel momento della prova e del­l’incertezza, le potenti ragioni della rinascita.
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