mercoledì 14 aprile 2010
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Sarebbe errato giudicare il summit sulla sicurezza nucleare fortemente voluto da Barack Obama solo sul metro dei risultati tangibili immediati. Il valore di questo incontro fra più di quaranta capi di Stato e Governo sta nel segnale che la presidenza statunitense ha voluto dare e nell’ambizioso obiettivo di medio-lungo termine circa il futuro della non proliferazione.Non vi è infatti dubbio che i mutamenti politici seguiti alla fine della Guerra Fredda e la crescita tecnologica di tanti Paesi stiano mutando gli ambiti e i confini della tradizionale azione di prevenzione per le armi di distruzione di massa. L’architrave di questo sforzo è, dal 1968, il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp); un accordo che fissava regole e limiti precisi all’uso della tecnologia nucleare da parte degli Stati, in modo da evitare che le tecnologie per l’energia nucleare a scopi civili venissero usate anche a scopi militari (le cosiddette "tecnologie duali"). Il Tnp, in fondo, è stato un buon trattato che – come dicono gli esperti – ha fatto il suo dovere: chi l’aveva firmato non ha proliferato, mentre i nuovi Paesi che si sono dotati di un’arma atomica (Israele, India, Pakistan, Corea del Nord) erano tutti Paesi non facenti parte del trattato.Oggi tuttavia lo scenario è mutato; da più parti si sente l’esigenza di regole più stringenti e, soprattutto, di verifiche molto più accurate da parte degli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica.Proprio la fine della divisione in due blocchi rende i conflitti regionali e la competizione geopolitica locale più aggressiva e meno prevedibile. Per di più ha fatto sorgere in molti Stati ambizioni crescenti per arrivare a possedere la tecnologia necessaria per un ordigno atomico, come ad esempio l’Iran del presidente ultraradicale Ahmadinejad. Non si tratta più solo di possedere o meno una bomba nucleare: oggi il confine della proliferazione si sposta sul terreno della conoscenza tecnologica e nel detenere quella che in gergo si dice "bomba virtuale" o "latente": ossia tutti gli elementi per realizzare un ordigno, anche senza assemblarlo fisicamente. Un confine molto più sfuggente e fragile rispetto ai conteggi che si facevano durante la Guerra Fredda su quante bombe erano a disposizione di russi o americani.Inoltre, vi è il rischio che attori non-statuali – ossia gruppi terroristici, movimenti radicali e pazzi vari – mettano le mani su armi di distruzioni di massa, o anche solo su riserve di materiale radioattivo, per ricattare governi o per compiere attentati spettacolari nei grandi centri urbani. È il rischio paventato da infiniti studi, simulazioni e banali film d’azione; anche se – va detto – proprio i lavori del summit hanno sottolineato quanto è stato fatto in materia di rafforzamento della sicurezza e della prevenzione.Il rischio maggiore è quello che – rinviando continuamente la riforma del Tnp per via dei veti incrociati – i governi si sentano sempre meno tutelati dalle politiche internazionali o guardino al possesso della tecnologia nucleare come a una soluzione per tutelarsi nell’avvenire. Una tendenza che farebbe collassare ogni politica di non proliferazione. Un rischio che non riguarda solo Paesi come l’Iran o la Corea del Nord. È noto che la corsa verso la tecnologia nucleare di Teheran inquieta i Paesi arabi e li spinge sulla stesse strada. E discorsi simili si fanno in Europa e in Corea del Sud. Perfino in Giappone, Paese simbolo dell’orrore atomico, in ristretti circoli si ragiona sul potenziale tecnologico nazionale, e su cosa fare se vi fosse una proliferazione nel Pacifico. Visto da questa prospettiva, il summit voluto da Obama sembra allora sia stato assolutamente opportuno e, anzi, necessario.
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