giovedì 19 maggio 2011
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Gentile direttore,mentre in bicicletta portavo a scuola i miei bambini, ho visto dei poster appesi: raffiguravano baci omosessuali e recavano la scritta "Civiltà, prodotto tipico italiano". Pedalando, mi sono chiesto cosa sia oggi la civiltà. Ho visto, poco dopo, un signore distinto in giacca e cravatta che raccoglieva con un sacchetto di plastica le feci di un cane peloso, e ho pensato che quell’uomo oggi verrebbe chiaramente elogiato come civile. Così come – ho pensato – si sente civile chi ricicla la carta per non ammazzare alberi e togliere ossigeno al pianeta o chi guarda una persona in carrozzina e la chiama "diversamente abile", ma anche – purtroppo – chi sostiene la decisione di poter morire quando si vuole o di non far nascere colui che non è benvenuto, o infine – e soprattutto – chi dice che tutto ciò è giusto perché esprime il valore unico che al giorno d’oggi pare deputato a descrivere il massimo livello di civiltà: la libertà individuale, o meglio, l’arbitrio (usiamo i termini giusti). Poi però mi sono chiesto se ci sia anche una civiltà meno esibita e più umana. Ed ho pensato alla civiltà della Croce, alla civiltà della sofferenza e dell’attenzione verso i deboli silenziosi: quella civiltà che si ricorda di piccoli esseri a cui viene negato il diritto di nascere, quella civiltà che si dedica agli anziani nonostante non siano oramai più considerati un investimento produttivo, quella civiltà fatta di persone che restano legate al proprio matrimonio, ricostruendolo magari con fatica e dolore, dando una speranza a figli incolpevoli che così non vengono travolti dalle vicissitudini (e talvolta dai capricci) dei genitori. Questa, caro direttore, è la civiltà costruita sulla roccia. Una frase, un giorno, mi colpì. Diceva questo: viviamo in un’epoca che accetta la morte di Dio molto più che la morte di Michael Jakcson. Forse, purtroppo, è questo il metro della nostra civiltà. Ma, e qui mi tocca l’autodafè, la colpa è di noi cristiani che cerchiamo di esser convincenti, laddove piuttosto dovremmo esser contagiosi.

Federico V.

La sua riflessione, caro amico, è assai bella e appropriata. E tocca uno dei grandi problemi delle nostre società "avanzate": la confusione (che è l’altro nome del relativismo). Nel dibattito pubblico, sui mass media e infine anche nella cartellonistica stradale si finisce per mettere, purtroppo, di tutto nel calderone della "civiltà", delle sue conquiste, dei suoi standard... Ma non tutto è uguale. E ci sono valori guida che aiutano a ricordarlo, dando fondamenta e prospettiva umana alla nostra civiltà, che per essere davvero tale ha, appunto, bisogno di chiarezza e non di confusione. Senso di giustizia e rispetto per chiunque impongono infatti di non discriminare mai alcuno, ma anche di riconoscere le differenze, di distinguerle bene e di regolarle diversamente.La capacità generativa che è propria di una coppia uomo-donna è naturalmente "impossibile" in una relazione tra omologhi e la famiglia nella quale quella fertilità può svilupparsi in modo stabile ha, per questo, una ben diversa rilevanza sociale rispetto a qualunque altro tipo di rapporto, di unione, di composizione di interessi: il matrimonio non è il patrimonio. Allo stesso modo è, e deve restare, evidente che la cura del debole e del malato non sono oggettivamente sullo stesso piano della non-cura o addirittura della soppressione delle persone inabili o imperfette. E chiunque, se appena si ferma a considerare il punto, comprende che ai diritti e ai doveri posti a tutela della vita umana non corrispondono simmetricamente diritti e doveri ad assicurare e a impartire la morte.Quanto alla sua stimolante annotazione finale, le confesso che mi piace pensare che a noi che proviamo a seguire Gesù Cristo tocchi di contagiare e di convincere. Ancora una volta, come Papa Benedetto insegna, si tratta di tenere assieme fede e ragione.
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