Cirenei di una croce troppo pesante
sabato 29 aprile 2023

Con una teologia falsa si è spesso avuto una pietà vera. Il sonar l’organo, osservava Galileo, non s’impara da quelli che sanno far gli organi ma da chi li sa suonare. I teologi fanno gli organi, quanto a sonarli è un’altra cosa. Il più inerudito cristiano può riuscirci meglio.
Giuseppe De Luca, Introduzione all’archivio italiano per la storia della pietà, p. LIX

«Che dire di quelli che in ogni regione reclamano il loro particolare santo protettore? Questo fa passare il mal di denti, quello assiste alle partorienti, uno fa recuperare gli oggetti rubati, quello che salva dai naufragi, la Vergine alla quale il volgo attribuisce quasi più poteri che al Figlio». Sono parole del grande Erasmo da Rotterdam (Elogio della Follia, § 40), scritte nel 1509 mentre Lutero stava maturando la sua Riforma, alla quale Erasmo non aderì. Erasmo non fu ascoltato. Quattro secoli dopo, oggi leggiamo: «C’è un monte, a poca distanza dal Pollino, con un culto arboreo che qui chiamano “Ndenna”, si svolge a metà giugno a Castelsaraceno. La prima domenica del mese si va a tagliare il faggio destinato a vestire gli abiti dello sposo (la “Ndenna”). La domenica successiva si sceglie il pino, la ‘cunocchia’ che farà da sposa. E infine sant’Antonio benedice l’unione» (Domenico Notarangelo, I sentieri della pietà, 2000).

Questa festa lucana della “Ndenna” è espressione dello sviluppo cattolico delle feste della natura. “Piantare il maggio” era una antica tradizione europea, presente ancora anche in Basilicata (Accettura) e anche in diverse zone dell’Italia centrale. Fino a tutto il Medioevo, nella notte del primo maggio i giovani piantavano rami e fiori davanti alle case delle fanciulle. Ma «verso la fine del Cinquecento iniziò la cristianizzazione del rito, invitando a orientare a Maria gli omaggi e le offerte floreali». Poi, a partire dal Settecento, i fiori degli altarini della Madonna subirono un ulteriore sviluppo «trasformandosi in “fioretti” spirituali: piccoli sacrifici offerti in omaggio alla Madonna per tutto il mese di maggio» (Ottavia Niccoli, La vita religiosa nell’Italia moderna, 2004, pp. 181-182). Ecco come nasce il “maggio mariano” con i “fioretti”. Tradizioni carine e belle, ma... non è facile capire cosa c’entri la Madonna con quegli antichi riti degli innamorati e i piccoli sacrifici con i fiori alle fidanzate. Un legame si può sempre trovare, certo. Ma si sarebbe potuto fare anche una scelta diversa: lasciare i culti antichi della fertilità e dei raccolti, non combatterli come fece Lutero, ma chiamarli “folklore”, considerarli tradizioni popolari senza volerli ricondurre dentro il cristianesimo – il problema nella festa della ‘Ndenna’ non è il matrimonio tra gli alberi ma la presenza di sant’Antonio. Con le antiche tradizioni si poteva fare qualcosa di simile a quanto fatto con la Befana, che non è diventata “la moglie dei re magi”, ma è rimasta fuori dal presepe, lì accanto.

La scelta di ibridazione religiosa degli antichi riti naturali, in sé anche comprensibile, ha comunque avuto costi alti, che si legano al grande tema del culto dei santi. Il Concilio di Trento corresse gli eccessi magici, ma ribadì la liceità teologica e liturgica dell’antica intercessione dei santi, che continuarono a essere mediatori e protettori dei raccolti dalla grandine o del mal di gola. Tra la Trinità e la gente venne così a formarsi una crescente schiera di intercessori, di passaggi intermedi che dovevano favorire e semplificare l’ottenimento delle nostre preghiere: «Dio vede i nostri bisogni e quindi potrebbe provvedere direttamente: ma la divina sapienza si compiace di comunicare i suoi doni attraverso intermediari» (Atti del Concilio Trento, Sessione XXV, 1563). Cresce quindi una idea di Dio troppo distante per essere raggiunto direttamente da noi creature infime. Ma, grazie a Dio, ci sono i santi, percepiti come creature mediatrici, perché simili un po’ a Dio e un po’ a noi, che quindi capiscono entrambi (i popoli latini hanno sempre amato i semi-dei: non a caso i templi di Ercole erano tra i più diffusi). La religione cattolica divenne una religione di Dio e dei santi, una esplosione di biodiversità religiosa, una foresta spirituale abitata da una infinità di esseri dove ognuno svolgeva la sua funzione nell’ecosistema del culto, dando vita a una perfetta “divisione religiosa del lavoro”. Peccato che nel frattempo in troppi ci siamo dimenticati che Dio si era fatto uomo proprio per ridurre la distanza mitica tra cielo e terra. Nel mio paese i santi e le sante erano presenti molto più della Trinità, anche perché quando si deve sopravvivere tra fame e malattie la pericoresi è un lusso che la gente non può permettersi.

C’è però qualcos’altro da dire per capire il grande amore per i santi – e di amore si trattò: fu la più grande storia d’amore della Controriforma. Il ricorso ai santi era reso quasi necessario dallo sviluppo, in età barocca, di uno spaventoso pessimismo antropologico. Se noi siamo soltanto “nulla”, delle larve morali, come possiamo rivolgerci in prima persona a quel Dio che diventa tanto più distante nei cieli quanto più noi sprofondiamo negli abissi della terra? In questi secoli si afferma infatti l’idea che “il fine” della vita umana sia la salvezza dell’anima e il solo amore di Dio, e quindi il disprezzo della gioia naturale del corpo, dei piaceri della vita: «Tu non sei nato per godere ma solo per amare il tuo Dio e salvarti in eterno... dunque il negozio di tutti i negozi, il solo importante e necessario, è il servire Dio e salvarti l’anima» (G. G. Giunta, Manuale di sacre preci, 1830, Napoli, p. 20). Una teologia dove per accrescere Dio è necessario abbassare l’uomo, per esaltare il divino è indispensabile disprezzare l’umano. Dio diventa un Padre bizzarro che gode dell’annullamento delle sue creature, che è felice solo quando gli diciamo: «Tu sei tutto, io sono nulla». Teologie distanti anni-luce dalla Bibbia, dall’Antico e Nuovo Testamento, dove «la gloria di Dio è l’uomo vivente» (sant’Ireneo), da un Gesù che ci ha detto: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Questa vita, non solo quella futura. E invece l’età barocca fu il tempo in cui la ricerca del paradiso (o del purgatorio) trasformò per troppi e troppe la vita presente in un inferno.

La distanza crescente che si era venuta a creare tra i cattolici e la lettura della Bibbia fece dimenticare che gli dèi che si nutrono dei loro fedeli si chiamano idoli, mentre il Dio della rivelazione sta tutto dalla nostra parte, fa ogni giorno il “tifo” perché fioriamo in pienezza come persone. E invece in quei manuali noi leggiamo: «Se non avete coraggio sufficiente per cercare le umiliazioni, non fuggite per lo meno quelle che si presentano: consideratele tutte come un segno della bontà singolare che Iddio ha per voi» (J. Croiset, Esercizi di pietà per tutti i giorni dell’anno, 1725, p. 35). Il Dio di Gesù trasformato in un essere che ci manda le umiliazioni, che ci umilia per farci umili, che si è quindi dimenticato la legge umana fondamentale: la via migliore per non rendere le persone umili è umiliarle. E poi, coerentemente con questa visione disumana di Dio, la ricerca della mortificazione divenne la via maestra: «Quanto più ci faremo forza in mortificarci, tanto più andremo avanti nella perfezione» (Diario spirituale, anonimo, Napoli, Jovene, s.d., p. 93).

Venendo alle conseguenze civili ed economiche, non deve stupirci se nei Paesi cattolici è stata così diffusa e variegata la pratica sociale della raccomandazione, che va dalla prassi consolidata di chi per ottenere un favore da un potente troppo lontano cerca di passare per un mediatore più vicino (“avere un santo in paradiso”), a chi deve chiedere un certificato in Comune e prima si domanda: “Quale impiegato conosco in quell’ufficio?”. Una particolare versione della mediazione, che ha fatto sì che anche nei Paesi cattolici non si sia sviluppata una cultura della sussidiarietà civile e politica (anche se la sussidiarietà è un pilastro della visione che si è fatta dottrina sociale della Chiesa), perché questa mentalità dei passaggi intermedi obbligati non fa altro che rafforzare la visione sacrale delle gerarchie umane, che è anti-sussidiaria. Più in generale, l’idea dell’intercessione ha alimentato una concezione della preghiera come richiesta, come un commercio con il paradiso, dove ci si rivolge ai santi e quindi a Dio soprattutto per chiedergli qualcosa che non ci abbia già dato, nutrendo così l’antico rapporto economico con gli spiriti e con gli dèi: i profeti e il Cristo scacciano i mercanti dal tempio per dirci che la loro religione non è commercio con Dio.

Tra i costi va però computato qualcos’altro, forse ancora più importante. Un cristianesimo diventato una nuova fioritura della religiosità naturale dei popoli mediterranei sta incontrando difficoltà enormi con la post-modernità, perché rischia di affondare insieme all’antica religiosità mitica che ha incorporato e “battezzato”. Non dobbiamo dimenticare che la resurrezione del Cristo non fu uno dei tanti miracoli e magie del mondo anticoma la loro fine: iniziò il tempo laico del “santo” sulla morte del “sacro”. Ma per aver voluto, ieri, parlare a tutti nella lingua di tutti, oggi il cristianesimo rischia di parlare (quasi) a nessuno in una lingua diventata (quasi) incomprensibile a tutti.

Eppure c’è anche una bella notizia. Nonostante quel disprezzo teologico della vita umana, nonostante una disistima pazzesca “per le cose di quaggiù”, quindi del lavoro e dell’economia, i cattolici sono riusciti a dar vita a imprese bellissime, a lavorare bene, a mettere al mondo figli e figlie, a essere qualche volta felici, ad amare i corpi e l’umanità intera. Hanno reso loro la vita molto difficile, ma ce l’hanno fatta. Perché la gente non ha mai creduto veramente a una immagine di Dio ridotta in quelle condizioni. Aveva un istinto buono, soprattutto lo avevano le donne, che le portava a chiedere a Dio che diventasse qualcosa di diverso. La pietà popolare fu anche pratica sovversiva, ribellione nei confronti di un Dio trasformato in nemico della felicità umana – lo vedremo nel prossimo articolo. Lo possiamo leggere anche in alcuni passaggi di questi Manuali di devozioni: «O Eterno padre, Giudice e Signore delle anime nostre, la cui giustizia è incomprensibile! Giacché ordinaste, o Signore, che l’innocentissimo Figlio vostro pagasse i nostri debiti, guardate, o Signore e Padre, alla sì tremenda agonia. Cessi, o Padre, la Vostra indignazione» (Esercizi di pietàdel Rev. D. Placido Baccher, Napoli, Stamperia Reale, 1857, p. 191).

La Vostra giustizia è incomprensibile... Cessi, o Padre, la Vostra indignazione: preghiera stupenda di un popolo che scelse di interpretare la parte del cireneo: si mise volontariamente sotto una croce teologica troppo pesante, per gli uomini e per Dio, per cercare così di alleviare quel peso insostenibile: «Padre, cessa la tua indignazione, non capiamo la tua giustizia». Non capivano quella teologia, ma Dio, il Dio della vita, lo capivano. E così impararono a pregare veramente chiedendo a Dio di salvare Dio: pregarono Dio per Dio, non per sé stessi. Impararono il cuore della Bibbia senza averla mai letta. E poi hanno riempito le chiese di dipinti di crocifissi con dietro il Padre che sorregge il figlio con le sue braccia, e piange insieme a lui. Perché sapevano che il “mestiere” dei padri e delle madri è schiodare i figli dalle croci, non metterceli. Fecero il possibile e l’impossibile per salvare Dio nel loro cuore. E ci riuscirono.

l.bruni@lumsa.it


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