Cambiamento senza «grandeur»
martedì 25 aprile 2017

Alla fine sarà, dunque, Macron contro Le Pen: il derby presidenziale più pronosticato, dal quale praticamente la totalità degli osservatori si attende una vittoria a valanga del giovane ex banchiere Rotschild, che valga come definitiva investitura popolare. Ma sarà davvero così? Per cercare di rispondere a questa domanda occorre procedere con ordine. Dal primo turno delle presidenziali francesi emergono quattro indicazioni. La prima è che il sistema progettato dal generale De Gaulle (il fondatore della V Repubblica) per assicurare alla Francia esecutivi forti e stabili è in affanno. Esso prevede un presidente che è un monarca eletto, dotato di poteri superiori al suo omologo americano a una condizione: che il medesimo partito esprima il presidente e il primo ministro. Quando ciò non si verifica, il premier prevale sul presidente che resta comunque dotato di prerogative nel campo della politica estera e di difesa che non passano automaticamente al primo ministro.

Se anche Macron dovesse vincere il secondo turno, difficilmente alle legislative di giugno il suo neonato movimento sarà in grado di esprimere candidature sufficientemente forti in tutte le circoscrizioni, al punto di consentirgli di ottenere anche solo un quinto dei seggi parlamentari (figuriamoci poi la maggioranza). Dovrà quindi ricorrere a una coabitazione con un premier espresso probabilmente dai Repubblicani, forse lo stesso Fillon. Quest’ultimo era il candidato designato alla vittoria fino a quando l’emergere dello scandalo 'Penelope' non lo ha azzoppato. Un fatto che ci ricorda come «vi sia nelle cose umane una marea...», per dirla con Shakespeare. Anche il meccanismo elettorale del doppio turno ne esce però ammaccato: concepito per far convergere il sostegno dell’elettorato verso i partiti espressione dell’establishment, per irreggimentare la competizione escludendone le estreme, ha prodotto l’effetto opposto: ha premiato le proposte più distintive e, per un pelo, non ha condotto a un ballottaggio tra Mélenchon e Le Pen. E così ci ha ricordato che nessuna legge elettorale determina il sistema partitico ma che, invece, il 'buon funzionamento' di qualunque legge elettorale dipende dalla salute del sistema dei partiti e dei partiti stessi.

La seconda considerazione è che esiste una parte (maggioritaria?) della Francia che è all’opposizione della Francia ufficiale, europeista e liberista. Se sommiamo i voti dei candidati della destra radicale (Le Pen 21,3% e Dupont-Aignan 4,7%) con quelli della sinistra di opposizione (Mélenchon 19,6%, Poutou 1,1%, Arthaud 0,6) arriviamo al 47,3%, contro il 50,4% della somma di Macron (24%), Fillon (20%) e Hamon (6,4%) resta fuori una manciata di voti di candidati di destra e di centro. Ma soprattutto restano fuori quelli che non sono andati a votare (circa il 20%). Con questi numeri, è assai improbabile che Macron possa vincere a mani bassi il ballottaggio. Oltre tutto, siamo così sicuri che gli elettori di Mélenchon siano pronti a votare per Macron, quando in realtà Marine Le Pen sostiene posizioni di politica economica molto più vicine alle loro di quelle di Macron? E la stessa cosa potrebbe valere per una parte dell’elettorato di Fillon, considerando che Marine Le Pen è, per molti aspetti, l’ultima gollista della V Repubblica (si pensi al ruolo dello Stato nell’economia, alla sovranità nazionale, alla polemica antiglobalista e alla diffidenza verso gli Usa).

Molti, semplicemente, non andranno a votare, altri potrebbero esprimere scelte sorprendenti. Il terzo messaggio è che, al ballottaggio, le paure, le aspettative e il malessere dei ceti bassi e medio bassi saranno più facilmente rappresentate da madame Le Pen che da monsieur Macron, esattamente come è avvenuto negli Stati Uniti con Trump. Le elezioni francesi ci dicono che quando la sinistra non fa la sinistra, il suo posto è occupato dalla destra: chiamarla 'populista' servirà forse a esorcizzarla, ma non certo a limitarne la capacità di fascinazione. Che presidente sarà Macron, qualora venisse eletto? Molto dipenderà dal risultato di altre elezioni: quelle legislative francesi, certo, ma ancor di più quelle parlamentari tedesche. Se dovesse vincere Frau Merkel, Macron inclinerà verso la conservazione. Se invece prevalesse Schulz, allora il giovane leader francese potrà assecondare le speranze di (auto)riforma dell’Europa: qualcosa di sempre più urgente e necessario ma sempre di là da venire. Con buona pace dell’orgoglio gallico e della grandeur transalpina, la quarta indicazione di queste elezioni è che da quel che succederà a Berlino capiremo come sarà Parigi. Sempre che Marine non ci sorprenda tutti, ovviamente. Ma anche in quel caso la Francia non sarebbe di nuovo grande, ma più sola.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI