sabato 14 novembre 2015
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«Sia posta fine alla catena di odio». Il sofferto auspicio di Junko Ishido, madre del giornalista giapponese Kenji Goto, spietatamente assassinato nello scorso gennaio in Siria, è arrivato poche ore dopo l’annuncio della presunta morte di Jihadi John, killer del reporter pacifista nipponico. La presa di posizione, coraggiosa quanto controcorrente, ci ricorda che non si dovrebbe mai esultare per la scomparsa di un essere umano, quali che siano i suoi crimini. L’anglo-kuwaitiano Mohamed Emwazi era diventato un simbolo della capacità militare (e della ferocia) dei neoconvertiti alla causa dello Stato islamico: la sua uscita di scena, dunque, rappresenterebbe un colpo soprattutto di immagine nella guerra che si combatte sullo scacchiere iracheno-siriano.  L’averlo individuato e colpito segnala una ritrovata, notevole capacità di intelligence da parte degli Stati Uniti e, probabilmente, anche falle nei sistemi di sicurezza dell’Is, forse aperte da 'collaborazionisti', finora piuttosto rari nei confini del Califfato. Vista da lontano, la sfida tra gli estremisti sunniti e l’ampia ed eterogenea coalizione internazionale è soprattutto una partita tra la perversa fascinazione esercitata dal Califfo e l’ordinaria forza dispiegata da eserciti che tentano – fuori tempo massimo e dopo aver portato distruzione e caos sui quali è proliferato il virus fondamentalista – di ristabilire un minimo di ordine legittimo e di rispetto dei diritti umani.  Per questo anche l’enfatico annuncio del presidente curdo Barzani della liberazione di Sinjar, fatto ai microfoni piazzati davanti a un muro di sacchetti di sabbia sul monte che guarda la città, ha reso la giornata di ieri un possibile momento rilevante per invertire la tendenza. L’offensiva dei peshmerga sta diventando, nelle ultime settimane, più forte e organizzata, con il taglio di alcune linee di rifornimento dell’Is e un rinnovato sostegno aereo da parte degli Stati Uniti. Le forze del Califfato, che possono usare la subdola arma delle autobombe in fase di avanzata, nel momento di ripiegare manifestano una certa debolezza, di cui il fronte degli oppositori sta approfittando. La riconquista di Sinjar rappresenta una rivincita concreta e simbolica per gli yazidi, l’etnia più colpita insieme ai cristiani dalla fulminea campagna jihadista dell’estate 2014. Ma costituisce anche l’avvio di un’azione che adesso può realisticamente guardare a Ramadi e Mosul, la roccaforte dell’Is in terra irachena. Non si deve dimenticare che il Califfato si è dimostrato sì capace di costruire un simulacro di Stato in tempi rapidi, tuttavia tale edificio è quanto mai fragile e ha bisogno di rifornimenti che devono passare dalle vie di accesso progressivamente ridotte dall’azione militare dell’ultimo periodo. I fondi per pagare gli stipendi, ai civili e agli arruolati, arrivano da poche fonti. Le armi, all’inizio strappate in quantità all’esercito iracheno in rotta, ora giungono con maggiore difficoltà, soprattutto i mezzi pesanti distrutti sono rimpiazzati a un ritmo ridotto.  È presto per ottimismi che rischiano di essere smentiti nel breve volgere di un mattino, eppure le sconfitte sul campo dell’Is possono fungere da volano a una sua caduta di credibilità e, conseguentemente, di forza di richiamo, così come le sue vittorie ne alimentano il mito. Sul versante siriano, le cose non vanno molto diversamente dopo l’intervento massiccio dell’aviazione russa, che spalleggia le truppe di Assad e dei lealisti. La vera incognita, nel medio periodo, riguarda la volontà di tutti gli attori in campo di dare un colpo, se non finale, certo molto pesante al sedicente Califfato. Non è un mistero che le fortune dell’Is si debbano, almeno inizialmente, a una benevola accondiscendenza dei Paesi sunniti, interessati a indebolire la maggioranza sciita e i curdi in Iraq e il regime alawita a Damasco. Che gli apprendisti stregoni abbiano davvero perso il controllo della situazioni o che lo simulino soltanto, annientare l’Is lascerebbe ancora aperta la partita per i futuri assetti della regione, dove le potenze locali si affiancano a Washington e Mosca, tutti con interessi e obiettivi diversi e inconciliabili. Non sarebbe la prima volta che si concedono spazio e possibilità a un nemico ritenuto meno pericoloso perché non si è in grado di affrontarne un altro più insidioso. Ma tali calcoli si rivelano quasi sempre sbagliati e rischiosi, perché a pagarne le conseguenze è soprattutto chi finisce con l’essere usato quale strumento di una lotta di potere. Il destino finora toccato a tutte le vittime innocenti del Califfo. ©
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