C’è un mondo che ci ama. Ed è anche il più sofferente
mercoledì 18 marzo 2020

Caro direttore,
circolano in rete video di bambini africani che sorridendo incitano in coro l’Italia a tener duro, perché il nostro Paese, dicono, ha vissuto momenti difficili nella storia ma li ha sempre superati. Io stessa ho ripubblicato il video, ringraziandoli. Numerosi rifugiati siriani che conosco da quando lavoravo nei campi profughi con loro mi scrivono via Facebook parole d’incoraggiamento, inviano fiori virtuali e cuori pulsanti. Siriani che vivono nell’area nord-occidentale del Paese inviano ai familiari che si trovano in Italia preghiere, rivolte anche alla nostra gente e alla nostra terra. Proprio loro, che vivono in zona di guerra, e da anni non sanno se alla sera saranno vivi o morti.

I tempi sono bui, certamente. E non posso non sottolineare l’importanza di queste azioni. Nella frenesia di scambiarsi informazioni che circolano in rete come un ciclone, che ingloba tutto nella sua frenetica corsa furiosa e poi lo risputa a chilometri di distanza, girano immagini metaforiche, nuove leggende, epiche gesta e mitologie improvvisate. Il monito di Dorothy del Mago di Oz “Non c’è miglior luogo della propria casa”, sembra quasi assurdo nella sua limpidezza oggi. Eppure da giorni mi interrogo su chi vive sotto le bombe o in baraccopoli emarginate e ha la forza d’animo di consolare un popolo, gli italiani, che fortunatamente vive in quello che in termini relativi potrebbe essere definito “il migliore dei mondi possibili” in quest’epoca contemporanea, nonostante le circostanze attuali.

Probabilmente la categoria interpretativa che bisogna adottare per comprendere questo fenomeno bellissimo è l’esperienza. L’esperienza delle cose brutali della vita. Essi sanno cosa vuol dire non uscire di casa per la paura, sanno cosa vuol dire rischiare la vita, un familiare alla volta, per procurarsi da mangiare. Sanno cosa vuol dire, nei campi profughi, non essere sicuri di potersi curare e rischiare di morire per un ascesso ai denti. Sanno cosa vuol dire passare lunghe ore senza elettricità, stretti attorno a una stufa di ghisa – chi ce l’ha – cercando di proteggere i più piccoli da eventuali incidenti domestici. Sanno che non sanno, che il destino è ignoto, e bisogna vivere giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto. E proprio coloro che vivono situazioni estreme – lontanissime dalla nostra – scelgono tra tutte le reazioni possibili a questo flagello del XXI secolo, quella di consolarci, partendo da una semplice equazione: non ha importanza la motivazione, quello che ci unisce è il senso di smarrimento, la paura e la privazione, e per questo ci sentiamo uniti a voi. E ci rassicurano.

Io credo che questo ci debba far riflettere. Ad esempio, si sta facendo di tutto per far rientrare in patria gli italiani bloccati all’estero: è evidente che la mobilità cui siamo abituati e l’autonomia che ora viene messa a dura a prova, ci mette in crisi. Stiamo riequilibrando le nostre percezioni, rielaborando le conquiste sociali, riscoprendo l’unicità del nostro stile di vita dalla qualità altissima. Come lei ha sottolineato, direttore (“Il rovescio del muro”, Avvenire del 1 marzo 2020), ci siamo scoperti proprio noi – che abbiamo uno dei passaporti più accettati nel mondo – discriminati, sbigottiti di fronte a porte e porti chiusi. Molti Paesi, tuttavia, hanno illuminato con il tricolore italiano i loro più significativi edifici per sostenerci; ringrazio la Slovenia, Sarajevo, Gerusalemme, le cascate del Niagara in Canada e altri per questo straordinario messaggio di solidarietà. Il mondo ama l’Italia e l’Italia ama il mondo. Ma sono i bambini africani seduti all’aperto, con la maestra che nel far ripetere loro le frasi di conforto per gli italiani sembra danzare davanti alla lavagna, a essere per noi, insieme ai siriani sotto le bombe e ai rifugiati nei campi profughi e altri in contesti simili, quel punto di riferimento che ci deve far ricalibrare le nostre vite.


Siamo tutti al lavoro per superare questa crisi mai sperimentata prima nel mondo, mentre il governo studia e prende sagge misure, e le persone comprendono e si adattano anche con soluzioni creative ed emotivamente coinvolgenti e apotropaiche. Ci stringiamo con dolore attorno a chi ha perso familiari. Ma proprio ora che ci sentiamo vulnerabili dal punto di vista medico, sociale, economico, dobbiamo guardare al mondo veramente come a un unico luogo condiviso. Il termine africano Ubuntu che in Bantu significa “umanità” corrisponde a una vera e propria filosofia che esalta il senso di condivisione universale, il legame che unisce tutti i popoli. È sintetizzata nel concetto Xhosa – l’etnia di Mandela – Umuntu Ngumuntu Ngabantu, un motto che mi guida da sempre e che vuol dire “io sono perché noi tutti siamo” ovvero – come diceva in altre parole in Occidente anche John Donne nel XVII secolo – “nessuno è un’isola”.

Le persone acquisiscono un senso nella comunità. Un principio, quello del valore della vita comunitaria, che gli italiani applicano con convinzione da sempre: siamo maestri nel rifletterlo nella giurisprudenza che regola le nostre vite e nella nostra splendida Costituzione. Tante le strategie che possiamo mettere in pratica con i gesti individuali e con le politiche mirate per allargare questa comunità che ci appartiene. I bimbi africani e i profughi siriani ce lo ricordano dai bordi della globalizzazione, e sta a noi fare silenzio, in questo momento sconvolgente, e riscoprire ed esprimere con forza l’Umuntu universale che c’è in noi. Ma non da soli, insieme al mondo, perché proprio a noi il mondo che ci ama lo chiede.

Viceministra degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale

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