sabato 30 maggio 2015
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Le grida delle vittime aumentano la loro forza quando sono ripetute. Nel suo discorso finale Giobbe continua a ripetere le sue domande e le sue grida, difende per l’ennesima volta la sua innocenza, lancia ancora una volta il suo urlo verso il cielo: il povero non è povero perché è colpevole. Un uomo può essere povero, sventurato e innocente. E se è innocente, qualcuno deve aiutarlo a rialzarsi. Dio per primo, se vuole essere diverso dagli idoli. Il vero delitto di cui si sono spesso macchiate anche le religioni è uccidere i poveri convincendoli che sono colpevoli e che hanno meritato le loro condizioni sventurate; e così noi siamo giustificati nella nostra indifferenza, alla quale cerchiamo di associare anche Dio. Girando per Nairobi (da dove sto scrivendo queste righe) l’urlo di Giobbe è assordante; le nostre mancate risposte mascherate dalle ideologie riecheggiano ovunque. Solo in compagnia di Giobbe si può camminare nelle "periferie del capitalismo" sregolato sperando di restare un po’ giusti. Riconoscerlo lungo le strade, accostarsi alle sue ferite, e tentare almeno di fare silenzio per ascoltare fino in fondo il suo grido. Gli amici di Giobbe hanno smesso di parlare. Lui resta di nuovo solo sul suo mucchio di letame, ferito nel corpo e affondato dentro un buio del cuore che solo Elohim potrebbe rischiarare pronunciando parole diverse da quelle che gli hanno attribuito i suoi interlocutori, i ruffiani di Dio, i nemici della vittima e dello sventurato. Elohim, però, non arriva. La sua assenza sta diventando la presenza più ingombrante al centro del dramma. Giobbe lo ha invocato, lo ha querelato, lo ha chiamato in causa come giudice di ultima istanza per difenderlo da Dio stesso, ha persino pronunciato un primo giuramento di innocenza; ma Elohim non arriva nell’aula del "tribunale", non parla, non risponde. E in questa attesa di un Dio diverso che tarda a venire, sul mucchio di letame di Giobbe giunge la "nostalgia": «Potessi tornare com’ero ai mesi andati … quando Dio proteggeva la mia tenda, quando l’Onnipotente stava ancora con me e i miei ragazzi mi circondavano» (29,2-5). È una nostalgia che acuisce il suo dolore. È gioioso ricordare la primavera durante l’inverno quando si crede o si spera che la primavera di ieri sta per ritornare domani. Ma quando l’inverno non sboccia in una nuova primavera, quando la notte non genera una nuova alba perché è l’ultima notte, il ricordo dei tempi della luce e dei germogli aumenta solo la sofferenza nel freddo di quell’ultimo inverno. È doloroso il ricordo della giovinezza nella vecchiaia se non abbiamo accanto almeno un bambino nel quale sentiamo rivivere una nostra futura giovinezza, tutta diversa, tutta e solo gratuità. La nostalgia che salva è solo la nostalgia di futuro. Ma in quell’ultimo ricordo dei giorni delle benedizioni ci sono molte altre cose. Innanzitutto Giobbe ci trova una un’ulteriore ultima prova della sua innocenza e giustizia: «Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo. Padre io ero per i poveri». E con la poesia a cui ci sta abituando, aggiunge: «Ho stretto un patto con i miei occhi, di non fissare lo sguardo su nessuna ragazza» (29,15-16; 31,1). E come tesi gemella a quella della sua innocenza, rincontriamo poi la sua accusa a Dio, sempre più chiara, sempre più forte, sempre più scandalosa e mirabile: «Mi ha gettato nel fango: sono diventato come polvere e cenere. Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta» (30,19-23). Il Dio biblico è un Dio vicino al povero, che risponde all’innocente che lo invoca; è prossimo alle vittime, corre in aiuto di chi grida. Il Dio che sta conoscendo Giobbe no: Giobbe grida e Dio non arriva. Se la Bibbia ci ha voluto mostrare un Dio che non risponde a Giobbe, è possibile trovare una verità nel Dio che non risponde quando dovrebbe farlo. Se guardiamo bene il mondo scopriamo che Dio continua a non rispondere a Giobbe che grida. È questo Dio muto quello che i poveri della terra conoscono. Allora, forse, se vogliamo sperare di incontrare "veramente" lo spirito di Dio nel mondo, e non restare catturati da qualche idolo fuori e dentro le religioni, dobbiamo scoprirlo dentro le grida senza risposta, dobbiamo cercarlo dove non c’è. Le ultime parole di Giobbe contengono poi un immenso "giuramento di innocenza" (se ho fatto questo delitto, mi colga questo male…). Giobbe lo aveva già pronunciato (27,1-7), ma ora diventa più solenne, finale, estremo. Un ultimo giuramento che contiene una perla, uno dei messaggi più grandi e rivoluzionari di tutto il libro e di tutti i libri. Nelle sue ultime parole scopriamo in che cosa consista veramente per Giobbe l’innocenza : -«Se il mio cuore si lasciò sedurre da una donna, altri si corichino con mia moglie… Se ho rifiutato ai poveri quanto desideravano, se ho lasciato languire gli occhi della vedova, se da solo ho mangiato il mio tozzo di pane, senza che ne mangiasse anche l’orfano … mi si stacchi la scapola dalla spalla e si rompa al gomito il mio braccio … Se ho riposto la mia speranza nell’oro e all’oro fino ho detto: "Tu sei la mia fiducia"’… Se, vedendo il sole risplendere e la luna avanzare smagliante, si è lasciato sedurre in segreto il mio cuore e con la mano alla bocca ho mandato un bacio ...» (31,5-10;16-28). Maltrattare e non soccorrere i poveri, l’adulterio, e le molte forme di idolatria (ricchezza e astri): sono questi i reati e i delitti più gravi per Giobbe, per tutti. Ma a un certo punto Giobbe aggiunge qualcosa che a prima vista ci lascia molto perplessi, stupiti, turbati. Sembra che Giobbe alla fine della sua arringa pronunci una ammissione di colpevolezza: «Non ho nascosto come uomo la mia colpa, tenendo celato nel mio petto il mio delitto» (31,33-34). Proprio nell’ultimo atto della sua difesa, a pochi passi dal traguardo si arrende, e seguendo i consigli degli amici ammette di essere colpevole, nega la sua innocenza che era stata il solo bene che aveva salvato nel tracollo totale. È questo il senso di queste parole? No. Giobbe qui ci sta dicendo qualcosa di diverso e molto importante, come sua ultima parola, come un testamento. Riconoscendo la colpa , Giobbe conclude i suoi discorsi allargando il territorio dell’innocenza umana fino a comprendervi anche il peccato. L’uomo giusto non è chi non pecca, chi non compie delitti, perché peccare è parte della condizione umana. Giobbe ha sempre negato la teologia economica degli amici che associavano la sua condizione di sventurato al suo peccato. Ora capiamo in pienezza che la giustizia e l’innocenza di Giobbe non consistono nell’assenza di peccati, di cadute morali. Anche Giobbe ha peccato. Si possono commettere peccati e persino delitti restando giusti se non si esce dalla verità su di sé e dalla verità sulla vita. È la menzogna il grande e unico peccato contro il Dio di Giobbe, il peccato di chi sa di sbagliare e tiene "celata nel petto la colpa", perché ammettendola e riconoscendola pubblicamente dimostrerebbe la volontà di conversione, e resterebbe giusto. Ci sono persone ingiuste e non innocenti che ricevono lodi pubbliche e onorificenze civili, e le carceri sono piene di giusti come Giobbe. Dio, se non è un idolo, non è libero di non perdonare il peccato dei giusti. Allora con le sue ultime parole Giobbe ci sta dicendo qualcosa di decisivo per ogni esperienza di fede: anche il peccatore può restare innocente. E se anche il peccatore resta dentro il territorio dell’innocenza, allora ci si può sempre risollevare dopo ogni caduta: innocenti si può tornare. Giobbe lo sa, perché crede e spera solo in questo Dio. È con questa innocenza sincera, vera, onesta, che Giobbe termina il racconto della sua storia. Ha svolto il suo compito, ha terminato la sua missione. Ha combattuto una buona battaglia. Ha conservato la fede nell’uomo, in Elohim, nella propria dignità, nel proprio onore, nell’innocenza dell’uomo, di ogni uomo. E lo ha fatto per noi, continua a farlo per noi, per includere nel regno degli innocenti anche i peccatori che continuano a essere giusti. Ora può solo attendere che anche Dio faccia la sua parte, aspettare la sua comparsa nell’aula del tribunale della terra. È lì che lo aspetta: «Ecco qui la mia firma! L’Onnipotente mi risponda! … mi presenterei a lui come un principe» (35,35-37). Giobbe ha terminato la sua prova con la dignità dell’uomo libero e vero. E si sente un re, «un principe», e può aspettare Dio a testa alta. Giobbe è nel tempo di avvento, attende ancora Dio; ma ora sa che se verrà sarà diverso da quello della gioventù. Quel primo Elohim è stato spazzato via dallo stesso vento impetuoso che ha cancellato i suoi beni. Ma non ha smesso di attenderlo, continua ad avere nostalgia di Dio, una nostalgia di futuro. Nelle prove della vita, anche in quelle grandi e tremende, la cosa importante, la sola cosa veramente importante, è arrivare fino alla fine della notte, non smettere di attendere un altro Dio, e giungere a questo incontro decisivo a testa alta. Non tutte le attese di Dio avvengono a testa alta, perché per tenere la testa alta e poter guardare Elohim negli occhi quando arriverà occorre vivere le prove della vita come Giobbe, non accontentandosi di un dio minore e di un uomo peggiore per salvarsi. Giobbe giungendo come un principe alla fine della sua difesa ha continuato ad allargare l’orizzonte dell’umano buono fino a farlo coincidere, sulla linea dell’orizzonte, con il cielo buono del suo Dio. l.bruni@lumsa.it
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