domenica 4 settembre 2016
Profezia di focaccia d'uva
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Il profeta non vela: l’uso di un linguaggio simbolico è anzi il suo modo per togliere il veloGuido Ceronetti, Il libro del profeta Isaia Saper pregare è un capitale personale e civile di grande valore, è una capacità fondamentale della persona umana, la prima opportunità che ci viene data quando diventiamo consapevoli di essere immersi dentro un mistero, quello della vita. È una risorsa morale preziosissima sempre, ma che diventa essenziale quando si attraversano le lunghe notti insonni, le distruzioni, i deserti. Chi ha appreso l’arte del pregare – dai genitori, dai nonni, dal grande dolore –, e l’ha saputa custodire diventando adulto, si ritrova dentro un autentico patrimonio dai rendimenti altissimi e crescenti nel tempo (è importante saper pregare da bambini, è cruciale saperlo fare ancora da vecchi, quando l’innocenza delle prime preghiere non c’è più, e deve tornare). Chi ha dimenticato come si prega, chi sta lottando per non scordare l’ultima preghiera imparata da bambino, chi non ha mai saputo né voluto pregare e un giorno ha sentito il desiderio di farlo, può ricominciare da Isaia. «Oh campi di Hesbon desolati, oh vigna di Sibma. Sono stati spezzati i tuoi tralci che raggiungevano Iazer, entravano nel deserto, arrivavano al mare. Per questo io mi unirò al pianto di Iazer sulla vigna di Sibma. Io ti irrigo con le mie lacrime, o Hesbon, o Elalèh. Sul tuo raccolto d’estate, sulla tua mietitura, si è spento il grido dei mietitori. La gioia si è ritirata, l’allegria è sparita dai frutteti. Non più canti né voci in festa dentro le vigne. Nei torchi non è più pigiata l’uva, il grido di gioia è finito» (Isaia 16, 8-11).
Il ciclo di profezie e di lamenti sulle città e sulle nazioni del libro di Isaia è anche un sublime tragico canto sul lavoro umano, sui mestieri, sui campi abitati dall’uomo nel tempo delle rovine. È una poesia di dolore che giunge fino al lavoro, e così affratella persone e natura, homo e humus, adam (uomo) e adamah (terra). Il profeta contrappone due tipi di grida: quelle di dolore della distruzione e quelle di gioia del lavoro. Quando in una comunità piomba la sventura, le grida di dolore di oggi spengono le buone grida di ieri, quelle della vita vissuta insieme nella convivialità. I canti del lutto strozzano i canti della mietitura, del raccolto, della vendemmia. Sulla terra ci sono grida buone e grida cattive, come ci sono risa buone che fanno vivere e risate pessime che uccidono. Le sventure e le distruzioni sono dolorose due volte: perché producono le lacrime dei lutti e perché ammutoliscono quelle della gioia. È stupendo che Isaia pianga anche per la distruzione delle vigne e del lavoro, annientati insieme alle città. Gli eserciti degli imperi non si limitavano a uccidere e a deportare le persone. Distruggevano (e distruggono) anche le case, bruciavano le mura, distruggevano i campi, i luoghi del lavoro e dell’economia, abbattevano gli alberi. Perché una città non è mai distrutta del tutto finché rimane in piedi un luogo di lavoro, un’officina, una vigna, un grappolo d’uva. Per questo non si ricomincia a vivere dopo le distruzioni se non si ricomincia a lavorare, e a lavorare insieme. Si risorge anche risuscitando il lavoro e i suoi luoghi. I figli non possiamo risorgerli; il nostro lavoro sì, e da queste risurrezioni possibili possiamo ricominciare a vivere. Dopo le distruzioni si rinasce ricostruendo. Il primo modo che abbiamo per ricostruire è vedere rinascere le cose dalle nostre mani, con-creare di nuovo la terra con il nostro lavoro. E magari mentre ritorniamo a pascolare il bestiame, incontrare un roveto ardente che ci rivela un altro nome di Dio, o mentre torniamo a pescare sentire la voce di qualcuno che ci chiama per nome.
Isaia, dunque, ci insegna a piangere per la morte degli uomini e delle donne e a piangere per la morte dei loro lavori, delle loro case, della loro oikonomia. Nel giorno della distruzione dell’Egitto: «Oh il lamento dei pescatori, i tuffatori d’ami nel Nilo intonano il canto funebre. Gli stenditori di reti sull’acqua sono stravolti. I lavoratori del lino in lutto, le cardatrici smorte, pallidi i tessitori, gli operai della birra disperati» (19,9-11). E in quello dell’Etiopia: «Si taglia il viticcio con la roncola, si potano i tralci» (18,5). Pescatori, potatori, tessitori, cardatrici, operai. Si lamentano, sono delusi, stravolti, impallidiscono, celebrano il lutto. Si piange per vite spezzate, non ci consoliamo per le morti dei bambini, ma si piange anche per le fabbriche distrutte, per le scuole crollate. Il lutto della città è uno solo, tocca le nostre opere. Le cose che amiamo e amavamo soffrono con noi, e noi con esse. Isaia è un grande conoscitore della vita della gente, e quindi del lavoro. Lo dobbiamo immaginare aggirarsi nelle campagne attorno a Gerusalemme e osservare e ascoltare i contadini e i lavoratori. La frequentazione della vita ordinaria della gente, l’esperienza dei tempi e dei modi delle potature e dell’azione della roncola e delle reti, hanno arricchito la sua poesia e la sua profezia. Oggi i nostri discorsi spirituali spesso si fermano troppo presto e troppo vicino e non raggiungono chi dovrebbero raggiungere, perché sono troppo distanti dalle imprese, dai campi, dai cantieri, dai luoghi ordinari del vivere. La profezia cambia la terra se emerge dalle sue viscere, se è canto della roncola e del lino. La metafora e il simbolo, che nei profeti agiscono sempre, qui prendono forza dalle vigne vere delle viti e dei tralci e dai mestieri. Una vigna può diventare immagine viva del popolo e della Chiesa se ne abbiamo vista almeno una vera, se abbiamo camminato tra i filari, se abbiamo sentito il suo odore e visto i suoi colori, e magari faticato un po’ nelle potature e nelle vendemmie. Solo le metafore incarnate riescono a incidere la nostra carne. Quando torneremo a scrivere – e a leggere – nuovi brani profetici nei mercati, nelle officine, nelle aule scolastiche, per incidere la carne del nostro tempo?
La Bibbia sa che il lavoro è vita e che la vita è lavoro. Sa bene che anche il lavoro ha la sua fatica e, a volte, la sua sofferenza. In genere la sofferenza del lavoro è buona e feconda. C’è però una sofferenza che non è mai buona, quella di non poter tornare al lavoro perché il luogo di lavoro non c’è più, è crollato, è inagibile. Sulla terra ci sono poche cose più belle della gioia che si sperimenta mentre si lavora, la gioia del lavoro fatto insieme. Nel nostro tempo questa gioia collettiva è in forte e veloce calo, sostituita dalla soddisfazione individuale per gli incentivi e per i bonus. Ma non è scomparsa, c’è ancora. La possiamo incontrare ancora nei campi, nelle fabbriche, negli uffici, negli ospedali, nelle scuole. Una forma speciale e preziosa di questa gioia la possiamo conoscere quando dopo aver sperimentato la fatica e la sofferenza per gestire una grave emergenza o per superare una crisi seria, dopo aver dato tutto, a un certo punto, senza preavvisi, si crea un clima diverso, entra un’aria fresca. Momenti brevi e rari, capaci però di compensare il tempo del dolore e della fatica e di sublimarlo. Qualche volta questa gioia diversa arriva alla fine della crisi e segna l’inizio di una fase nuova; altre volte i problemi non si risolvono, ma questa aria diversa arriva lo stesso, come balsamo per l’anima individuale e collettiva. Le generazioni passate sapevano, meglio di noi, riconoscere questa tipica gioia e celebrarla. Spesso erano le donne che ne avvertivano arrivare i primi segni; intonavano uno stornello, e iniziava la festa. Altre volte era una preghiera, un canto della resistenza, una storia a far scattare queste dimensioni diverse del tempo e dello spazio. In quei momenti il lavoro ordinario diventava liturgia, forgiava i legami comunitari, creava amicizie per sempre, faceva cominciare e ricominciare il tempo della compagnia e della fraternità. Possiamo frequentare mille corsi sul benessere lavorativo, assumere coach e counselor, ma se non impariamo presto come ricreare le pre-condizioni spirituali e morali perché possa compiersi il miracolo di questi momenti diversi il lavoro del XXI secolo sarà più povero di quello dei secoli passati, che era duro, durissimo, ma conosceva anche questa bellezza.
Il pianto di Isaia per la distruzione della regione di Moab ci riserva un’altra sorpresa, delicata e meravigliosa: «Tutti gemono costernati per le focacce di uva di Qir-Cherèset» (16,7). Tra le pagine del rotolo di Isaia, dentro la Bibbia, una parola della Parola è dedicata a una torta d’uva, un umile prodotto tipico di Moab. Isaia sparge le sue lacrime anche per un piatto locale, per una focaccia particolarmente squisita, nota in quelle regioni. Il suo lamento di lutto abbraccia un prodotto alimentare di quella terra distrutta, una focaccia, frutto delle mani e della saggezza di quella terra. È lì, anch’essa sacramento eterno di quella antica sofferenza di donne, uomini, bambini, bambine, della terra. Prima di diventare business, spettacolo, televisione, il cibo è la vita della gente, compagno (cum-panis) di gioie e di dolori. La Bibbia lo sa e ce lo insegna, e ci ha lasciato traccia di un luogo distrutto piangendo per un suo "piatto tipico". C’è una spiritualità dei luoghi e quindi anche dei prodotti dei luoghi, della cultura e della coltura. Isaia è grandissimo anche per questi dettagli, che rimangano nascosti e muti per secoli, finché la vita non li illumina e spiega. Se fossimo arrivati alla focaccia di Qir-Cherèset due settimane fa non si sarebbe illuminata, non ci avrebbe amato come ci sta amando oggi. Quella schiacciata d’uva era lì da due millenni e mezzo, ci attendeva per donarci oggi, nelle nostre distruzioni, un messaggio di speranza, un messaggio che Isaia non poteva conoscere. È stata la nostra storia a rivelarglielo. Noi continuiamo ad avere bisogno della Bibbia e dei profeti. La Bibbia e i profeti continuano ad avere bisogno di noi.
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