L'altro nome della fede
sabato 23 maggio 2020

In questo Spirito che è l’amore tra il Padre e il Figlio, tra il Figlio e noi, tra noi e noi, quanti abbiamo un’anima, in questo Spirito che è il nostro amore, sta tutta la nostra salvezza: gettata nel suo fuoco, la nostra salvezza umana diventa la nostra divina pazzia. Oh fosse così, oh sia così.
Giuseppe de Luca, L’intelligenza e la salvezza dell’anima

«Il cuore degli ottenebrati parla così: "Dio non c’è". Il Signore dal cielo si affaccia e si china sui figli dell’uomo per vedere se c’è un uomo saggio, uno che cerchi Dio» (Salmo 14, 1-2). Un inizio originale per un salmo unico nel salterio. Un inizio speciale perché speciale è la posta in gioco. È infatti la sola volta che nella Bibbia troviamo scritto: Dio non c’è. Anche il mondo religioso antico conosceva il dubbio che gli dèi fossero una invenzione dell’uomo. L’uomo biblico è più vicino a noi di quanto pensiamo e scriviamo. Anche la domanda sull’esistenza di Dio tra le domande legittime della Bibbia.

Il Salmo 14 fu scritto con ogni probabilità durante l’esilio babilonese. I babilonesi non erano atei. Ci hanno lasciato raccolte di preghiere bellissime, avevano in grande considerazione i loro dèi che onoravano con processioni, templi e statue spettacolari. Quindi i babilonesi non dicevano esplicitamente "Dio non c’è", tantomeno lo dicevano gli ebrei. Quella del salmista era allora un’accusa alla falsa religione? Era una critica idolatrica? No. La forma della negazione di Dio di cui parla questo salmo non è quella idolatrica. Quale allora?
Ce lo rivelano due elementi, uno linguistico e l’altro teologico. La parola ebraica che il salmo 14 usa per dire «Dio non c’è» è Elohim, che nella Bibbia è il nome generico della divinità (gli dèi). Se il salmista avesse voluto criticare l’idolatria, il culto di dèi «falsi e bugiardi», il nome di Dio usato doveva essere YHWH, il nome proprio del Dio biblico. Anche perché YHWH è il nome di Dio più usato nel salterio e quasi esclusivamente nel primo libro (salmi 1-41). Usare qui Elohim significa allora voler dare a quella negazione – Dio non c’è – un valore che va oltre la critica idolatrica. In quel «Elohim non c’è» si nasconde allora qualcosa di universale e di tremendamente importante per ogni religione (e per ogni ateismo). Di quale "ateismo" parla questo salmo?

Lo scopriamo guardando il secondo elemento: «Sono distorti tutti, è un reciproco guastarsi: non c’è nessuno che agisca bene, neppure uno. Si divorano il mio popolo come mangiassero un tozzo di pane... Voi deludete la speranza del miserabile» (3-4,6). Qui ritroviamo la tesi profetica che la negazione di Dio si rivela nella negazione dell’uomo, soprattutto dei poveri. «Dio non c’è» non va dunque letta come una affermazione atea del tipo di quelle che abbiamo iniziato a conoscere in Europa con la modernità, ma come una conseguenza di un’idea centrale nella Bibbia: Dio c’è se c’è l’uomo – è l’uomo l’altro nome della fede biblica. È il «divorare il popolo come un tozzo di pane» che dice questo tipo di ateismo. Non è faccenda filosofica né intellettuale, è molto di più.

Certamente la vita sociale dei babilonesi dovette esercitare un grande effetto sugli ebrei deportati. Quelle banche che prestavano a interesse e che generavano debitori schiavi, la corruzione del potere in quel grande impero, impressionarono molto gli ebrei e i loro profeti. Ezechiele, profeta in esilio, arrivò persino a formulare una versione del peccato dell’Adam nell’Eden come peccato economico: «Con la gravità dei tuoi delitti, con la disonestà del tuo commercio hai profanato i tuoi santuari» (Ez 28,18). Ma l’ateismo pratico iscritto nelle prassi socio-economiche era qualcosa di ancora più generale di quanto avveniva in Babilonia. Lo ritroviamo già in Isaia, prima dell’esilio: «Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me... Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1, 13-17). Isaia accusava i suoi concittadini non i babilonesi; stigmatizzava gli assidui frequentatori del tempio e i praticanti che offrivano i sacrifici mentre calpestavano il diritto e la giustizia.

Il salmista vede allora l’assenza di Dio nell’assenza dell’uomo. Sono questi i passaggi da cui si comprende che la teologia biblica è immediatamente umanesimo: il Dio biblico si onora onorando gli uomini, le donne, i poveri. Ritorna ancora l’antropologia della Genesi: siamo immagine di Dio anche perché quando qualcuno – un impero o una cultura – non vede più l’uomo non vede più Dio, anche quando continua a pregarlo e lodarlo nei templi. È già ateo, anche se non lo sa ancora. Ci sono molti modi per dire "Elohim non c’è", "Elohim è nulla" (nella traduzione di Ceronetti). Quello che sta più a cuore alla Bibbia è chiaro: "l’uomo è nulla", "il povero è nulla". E che sia nulla lo dice l’unico linguaggio che davvero conta: quello del comportamento e dell’azione. Il mondo è stato sempre popolato di uomini religiosi che onoravano Dio e disonoravano gli uomini, che apprezzavano gli dèi e disprezzavano i propri simili. Non basta essere religiosi per non essere atei. E se il salmista ha scelto Elohim e non YHWH per parlarci di questo tipico ateismo, è anche per dirci che questa malattia di <+CORSIVO50>ateismo devoto<+TONDO50> attraversa tutte le religioni, comprese quelle bibliche. Gli uomini dicono "Dio non c’è" con il loro modo di trattarsi a vicenda e di trattare i poveri. La Bibbia non è un trattato di etica, ma dall’etica degli uomini si capisce se nel popolo c’è o non c’è la fede.

Il salmo chiama «stolto», «ottenebrato», «stupido», chi dice «Dio non c’è». Quale è la stoltezza di questo ateismo? Innanzitutto è un ateismo collettivo, una malattia che ha infettato l’intero popolo: «Non c’è nessuno che agisca bene, neppure uno». Questa stoltezza che porta a negare Dio non è dunque faccenda che riguarda qualche singolo intellettuale o filosofo scettico; quello denunciato dal salmista è un ateismo popolare: non è rimasto neppure un credente. Siamo in una situazione simile a quella di Sodoma e Gomorra, alla Gerusalemme dove Geremia non trovò neanche un giusto (Ger 5,1). Peggiore della terra osservata dal Satan in ricognizione che vi trovò almeno un uomo giusto: Giobbe (cap.1); un mondo più corrotto di quello prima del diluvio, dove almeno vi era rimasto un giusto: Noè.

È bellissima la radicalità della Bibbia – tutti, neppure uno. Tutti stolti. Lo siamo tutti quando dentro istituzioni, comunità, movimenti, imprese, chiese, si annida e si diffonde la corruzione. Precipitiamo in "un reciproco guastarsi". Il (raro) verbo ebraico usato qui, ’alàh, esprime il contagio reciproco, la mutua contaminazione. Anche se molti sono asintomatici la corruzione raggiunge tutti. Per uscire da queste situazioni ci vorrebbe un Noè, un Geremia, un Abramo, Maria. Ma non sempre ci sono. Quasi mai. Perché quell’«uno solo» per non essere stolto dovrebbe denunciare l’ingiustizia, resistere a lungo nella sua denuncia, sopportare le persecuzioni, e se non ottiene nessun risultato dimettersi, licenziarsi, uscire, dissociarsi. Ma queste azioni sono molto costose e quindi molto rare sulla terra. Anche in queste dinamiche di "guastarci a vicenda" siamo tutti figli di Adamo, siamo solidali nella corruzione, e anche quando i sintomi non sono evidenti siamo quantomeno complici e quindi stolti.

La parola che il salmo usa per dire "stolto" è nabal. Nabal era il nome del marito di Abigail. Nell’episodio del primo Libro di Samuele, Nabal non capì come doveva comportarsi con Davide. Non rispose ai suoi doni con altri doni, non "riconobbe" Davide. Stava per scatenare una guerra se non fosse intervenuta Abigail, che fece tutto quanto non aveva fatto suo marito: fu grata, riconobbe Davide, lo riempì di doni, fu generosa, e seppe onorare il suo ospite: «Non faccia caso il mio signore a quell’uomo cattivo che è Nabal, perché egli è come il suo nome: stolto si chiama e stoltezza è in lui» (25, 25). Abigail ricostruì il rapporto spezzato da suo marito, e con il suo dono ottenne il per-dono di Davide, che riconobbe in quelle relazioni curate la presenza di Dio: «Benedetto il Signore, Dio d’Israele, che ti ha mandato oggi incontro a me» (32). Abigail fu l’anti-Nabal, disse "Dio c’è" dicendo "l’uomo c’è", tramutando la guerra in pace. Non c’è modo migliore per dire-bene Dio, per bene-dire Elohim – le donne lo sanno bene, le donne lo sanno meglio.

Il Salmo definisce il "saggio" (maskil) non trovato da Dio sulla terra uno "che cerca Dio". L’opposto dello stolto è dunque il cercatore di Dio. Ma il primo cercatore che troviamo nel salmo è Dio-Elohim, che si affaccia dal suo balcone dei cieli per cercare almeno un uomo giusto. Dio cerca per trovare qualcuno che lo cerchi. La fede è un incontro di ricerche, una reciprocità di desideri, che diventa rapporto ternario: Dio cerca un uomo capace di cercarlo cercandolo nell’uomo – «...e il secondo comandamento è simile al primo». Ma allora ci può essere ancora un altro senso di questo Salmo 14: se il saggio è chi cerca Dio, allora lo stolto dice "Dio non c’è" perché, semplicemente, non lo cerca: e se l’ateismo stolto fosse quello di chi ha smesso di cercare?

Un giorno, un altro folle uomo «cercava Dio». Non lo trovò e annunciò a tutti che era morto. Forse perché lo aveva cercato nel «mercato», dove «si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio» (F. Nietzsche, La gaia scienza). Il mondo dove abbiamo trovato morto quel Dio che stavamo cercando è preferibile a quel mondo corrotto dove nessuno può dire "Dio c’è". E se lo dicesse direbbe qualcosa di più falso del "Dio non c’è" detto, in quella stessa situazione, dallo stolto. C’è un ateismo meno stolto di una fede proclamata in mezzo all’ingiustizia generale. Se il Dio cercato è morto possiamo sempre sperare e pregare che risorga.
Quando il «Figlio dell’uomo tornerà» non andrà nei templi e nelle chiese per vedere se «la fede è ancora sulla terra» (Lc 12,7-8). Guarderà ai nostri rapporti sociali: guarderà a come ci vorremo bene o male, guarderà le nostre banche, la nostra evasione fiscale, i nostri ospedali, gli stipendi ai braccianti e quelli ai manager. E se ci sarà ancora la fede la troverà soltanto dentro la giustizia e la verità dei nostri rapporti; se ci sarà ancora la potrà riconoscere da come risponderemo alla speranza del miserabile.

l.bruni@lumsa.it

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