Quest'infinita triste commedia
giovedì 14 marzo 2019

Un no deal traumatico, una soluzione di tipo norvegese (fuori dall’Europa, ma dentro il mercato unico), una soft-Brexit, un secondo referendum, nuove elezioni, un protrarsi indefinito dello stallo in attesa di una magica soluzione sul «backstop» per mantenere aperto il confine fra l’Irlanda e l’Irlanda del Nord in ossequio alla pace siglata nel 1998. Quale che sia l’esito dell’esasperante contenzioso con l’Unione Europea e con il Parlamento, la ripetuta disfatta del governo May alla Camera dei Comuni non fa che suggerire lo stravolgimento di quell’identità britannica così come l’abbiamo conosciuta (e a volte subita, soprattutto in sede europea) negli ultimi cinquant’anni. Svanito il proverbiale pragmatismo insieme a quei "lampi di coraggiosa disperazione" che erano il marchio di fabbrica della fibra politica dei suoi leader, oggi si assiste allo stato di crisi di un Paese al tramonto di una dinastia regale (l’irripetibile lunghissimo regno di Elisabetta), dominato dalla confusione politica e da un sostanziale dilettantismo della propria classe dirigente (dall’improvvido referendum pilatescamente indetto nel 2016 da David Cameron, alle elezioni che la premier May pensava di stravincere e che l’hanno relegata in una minoranza prigioniera degli umori della destra unionista nord-irlandese), fino alla drammatica spaccatura della società provocata dal referendum (città contro campagna, leave contro remain, 52 contro 48%), in cui pian piano vincitori e vinti si sono accorti di essere tutti ugualmente vittime di un grande abbaglio collettivo: quello di liberarsi dai vincoli europei e segretamente quello di conservarli restandone fuori.

Un sogno breve, quello populista-nazionalista, una grande illusione vellicata non solo dagli alfieri del leave (come il già dimenticato Nigel Farage, insieme anche a una martellante campagna di persuasione occulta attraverso i social network), ma soprattutto dai ribelli tories come l’ex sindaco di Londra ed ex titolare degli Affari Esteri Boris Johnson. Sono loro, i pasdaran della Brexit a ogni costo ad avere affondato il già fragile vascello della maggioranza in nome di un’utopia allucinata che perfino un quotidiano non sospettabile di simpatie socialiste come il "Financial Times" guarda con sbalordito timore. Non bastavano – si chiedono ora allarmati – gli "opt out", i privilegi ottenuti in quarantaquattro anni di coabitazione, come il mantenimento della sterlina, la non adesione all’area Schengen e l’esonero dalla Corte di Giustizia di Lussemburgo sulla base della Carta dei Diritti? Evidentemente no. Ma in questa deriva identitaria i cui effetti quasi grotteschi sono sotto gli occhi di tutti, la ragione sembra smarrita. «Il vecchio De Gaulle - motteggiano alcuni giornali - oggi riderebbe sotto i baffi». Hanno ragione: il vero antesignano della Brexit in fondo era stato proprio lui, quando nel 1967 si era messo di traverso ponendo il veto alla richiesta inglese di entrare a far parte della Comunità Economica Europea.

Il risveglio oggi è ancora più amaro: al posto di quelle isole orgogliose che hanno sempre diffidato dell’Europa, oggi c’è soltanto una Britannia che è una nave in tempesta, sballottata dagli eventi e in balìa delle onde, dominata dall’incertezza e dalla paura di un futuro - politico, economico, sociale, burocratico, normativo - che per la prima volta dalla crisi di Suez appare senza guida, nonostante la composta fermezza di una premier cui non difetta né le viene negato il coraggio. L’afonia stessa della signora May - senza voce davanti al tumulto dei Comuni che le tolgono il consenso - è quasi una trasparente allegoria di una nazione in cerca d’autore. Non sappiamo ancora l’esito di questa commedia che di autori ne ha invece troppi, ma il lieto fine appare sempre più esile e lontano.

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