sabato 9 agosto 2014
​Lo scrittore esule da Mosul rilegge la storia del suo Paese.
di Younis Tawfik
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Younis Tawfik è nato nel 1957 a Mosul (Ninive), in Iraq. Fin da giovane ha pubblicato poesie sulle maggiori riviste del Paese e nel 1978 ha ottenuto il Premio di Poesia Nazionale conferito dalla Presidenza della Repubblica. Nel 1979 si è trasferito a Torino dove nel 1986 ha conseguito la laurea in lettere. Si dedica soprattutto alla divulgazione della letteratura araba. La sua opera più conosciuta è il romanzo "La straniera" edito da Bompiani nel 1999. Il suo secondo romanzo è "La città di Iram", seguito dal saggio "L’Iraq di Saddam" 2003. Nel 2008 pubblica "La sposa ripudiata" con Bompiani e nel 2012 "La ragazza di piazza Tahrir" con Barbera. È stato membro della consulta islamica in Italia, ha insegnato lingua e letteratura araba all’Università di Genova. Dal 2000 è presidente del Centro Culturale Italo-Arabo Dar al Hikma.

Erano i primi giorni di agosto del 2012, quattro anni dall’assassinio di mio fratello Faris ad opera dei miliziani dell’Isis che agiva nell’oscurità del caos politico iracheno, quando decisi di recarmi in Iraq da cui mancavo da più di trent’anni. Faris era avvocato civile e fino ad oggi non si sa ancora perché avevano scelto di ammazzare proprio lui il giorno dopo avere fatto fuori il suo vicino di casa, un medico cristiano appena sposato.  Avevo abbandonato il mio Paese fuggendo dal regime di Saddam Hussein alla ricerca di un mondo altro, della conoscenza e del dialogo, nella segreta speranza che la mia patria, martoriata da conflitti e persecuzioni, venisse liberata e potesse crescere in un sistema democratico che garantisca la libertà personale e religiosa. L’atmosfera a Mosul, la mia città natale, era cupa, immersa in una calma apparente, ma le anime erano inquiete e la tensione molto alta. Dopo una settimana passata in casa, con mia madre che mi raccontava gli anni del terrore e della lenta morte che affliggeva il nostro Paese, chiesi di essere portato in visita, come un turista, nella città devastata da bombardamenti americani e autobombe dei terroristi. Credevo di camminare in un luogo colpito da una bomba nucleare, svuotato della sua essenza, triste e demoralizzato. Era come se fossi entrato in una zona terremotata custodita da soldati e poliziotti armati in tutti gli angoli. Era talmente cambiata che non riconobbi neppure il quartiere dove ero nato.  Sollevando lo sguardo a nord dalla mia casa paterna, divenuta un modesto albergo, vidi il minareto della grande moschea Al Nuri, che ancora oggi svetta ricurvo dal 1172, anno della sua costruzione. Non lontano, si innalzava fiera la torre dell’orologio della chiesa latina dei padri domenicani, costruita nel 1873, devastata dagli attentati e oggi completamente abbandonata. Immaginavo i due edifici in dialogo tra loro, eretti verso il cielo come in una sfida contro il tempo.  Girava la voce in tutta la città e nel caffè Al Karam – dove incontrai i miei vecchi maestri e amici: poeti, artisti, scrittori e giornalisti, musulmani e cristiani – che i jihadisti si preparavano per invadere la regione e che un giorno sarebbero arrivati in massa per instaurare 'giustizia e libertà'. Era evidente che la gente soffriva la prepotenza e la tirannia dell’esercito del premier Al Maliki e sperava in un salvatore. Allora non si parlava dell’Isis, ma di patrioti che avevano combattuto contro l’invasione americana, della vera resistenza sunnita.  Sono passati appena due anni e la regione di Ninive ha conosciuto un triste destino, proprio come ai tempi della devastante invasione mongola, quando l’esercito iracheno si era dato alla fuga senza opporre resistenza. Quelli che si erano spacciati come salvatori della patria si sono rivelati dei veri criminali che, sotto la bandiera nera con inciso il sigillo del profeta, impongono comportamenti e leggi disumani che nulla hanno a che fare con l’islam. Nella Valle tra i due fiumi la macchina del tempo inizia a portarci indietro e i primi a pagare un caro prezzo sono i cristiani, gli antichi abitanti della regione di Ninive, costretti a dover scegliere tra la conversione all’islam, il pagamento della jizia, (la tassa di sottomissione) o l’abbandono della terra e dei loro averi. Durante i califfati veniva imposto il pagamento di imposte aggiuntive ai non musulmani in cambio di protezione durante i conflitti, ma in uno stato di diritto, come quello che si voleva, tutti i cittadini sono uguali senza distinzione religiosa o etnica.  Mi chiedo come si possano cacciare dalla loro terra popolazioni intere che l’abitavano ancora prima dell’arrivo dell’islam. Lo dico senza mezzi termini: i cristiani di Mosul hanno più diritti di noi arabi musulmani a stare in quella terra che li aveva conosciuti già dai tempi degli Assiri, e noi abbiamo il dovere di fare l’impossibile per aiutarli a tornare alle loro case.   Purtroppo l’ombra nera del fanatismo discrimina e distrugge non soltanto la comunità cristiana, ma anche altri come gli yazidi, i shabak e i curdi, devastando statue, monumenti storici, chiese, templi e moschee. Una ferita lancinante si è aperta nel mio cuore guardando il video dell’abbattimento della moschea più antica dedicata al profeta Giona, meta di pellegrinaggi sia dei musulmani sia dei cristiani iracheni. Mio padre appena sposato prestava servizio militare nelle vicinanze di quel sepolcro, quando gli giunse la notizia che mia madre era stata ricoverata all’ospedale in attesa che io nascessi. Lui, entusiasta, era corso a pregare e a fare un voto ad Allah e al profeta Giona, sepolto in quell’edificio: 'Se avrò un figlio maschio, gli darò il tuo nome, Younis'. Sono state distrutte la maggior parte delle moschee che contengono sepolcri, come quella del profeta Seth, del profeta Giargis, la moschea del figlio di Hasan, nipote di Maometto, monumenti che raffigurano poeti del nono secolo come Abu Tammam e compositori come Ishaq al Mausili dell’ottavo, e altri ancora. Il fatto più triste è che il mondo sta a guardare, tra impotenza e indifferenza, la morte della civiltà nella Valle delle civiltà.  In Iraq si muore tutti i giorni e la maggior parte delle vittime sono tra la popolazione civile, proprio quella povera gente che aveva già pagato un caro prezzo per la sciagurata politica di Saddam Hussein, per le frequenti guerre, per l’embargo e per la situazione venutasi a creare in seguito alla caduta del regime.  Il processo verso la democrazia e la libertà passa attraverso un serio e pacifico lavoro di dialogo e di ricostruzione dell’uomo e il risveglio dell’orgoglio della nazione intera che oggi è al limite del collasso. Il cittadino iracheno ha bisogno di rinascere, di sentirsi libero, di essere reinserito nella società internazionale, di riavere la sua dignità, di vivere in pace e soprattutto di godere dei suoi diritti umani e civili. A cosa giova rapire le persone o sequestrare bambini senza colpa per poi morire con loro, o sgozzarli? La responsabilità di questi delitti ricade sui gruppi di estremisti islamici in azione nella mia terra, su chi definisce kafir, 'miscredente che è lecito uccidere', chi è colpevole di non pensarla come loro.  Questa violenza cieca è anche frutto di fatwe e di infuocati discorsi che certi imam e autorevoli uomini religiosi diffondono attraverso canali satellitari per confondere giovani entusiasti o persone succubi della rabbia e del malcontento che cova nei loro cuori, e fargli credere che combattere gli 'infedeli' non solo è lecito, ma è un dovere religioso e in quel caso morire diventa martirio.  Quanto sta accadendo dovrebbe spingere noi musulmani a meditare sull’enorme danno che sta subendo la nostra fede e la nostra civiltà. Chi vuole il bene dell’Iraq è invitato a portare pace e benessere in un Paese imbottito di armi e di odio e dove la maggioranza della popolazione chiede di poter vivere nella serenità dell’amore e in sicurezza. Nel segno della pace e della concordia tra le genti che per secoli ne hanno fatto un mosaico di popoli.

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