Basta con le «riformette», serve un cambio radicale
sabato 9 giugno 2018

Chi parla assennatamente di cambiamento di una società, sa bene che il luogo dove si realizza un cambiamento è la dimensione educativa. I cambiamenti o sono di tipo educativo o sono di altre due tipi, entrambi non consigliabili: superficiali o violenti. E se dunque qualcosa in Italia deve cambiare la prima attenzione del governo e del popolo dovrebbe essere sulla scuola, o meglio, sul campo educativo.

Un dibattito si è sviluppato in questi giorni con l’insediamento del nuovo governo. Poiché il tema è complesso e delicato non crediamo a ricette miracolose. Ma un buon inizio può essere porsi le domande giuste (e scomode). Eccone alcune. La scuola infatti non è solo affare del governo, ma soprattutto del popolo, cioè di genitori, famiglie, giovani etc. La prima domanda riguarda l’epoca che viviamo. Molte strutture fondamentali della vita pubblica fissate da centinaia di anni stanno modificandosi o sono in crisi. I motivi della trasformazione sono tanti, ma è evidente che partiti, media, organizzazione del lavoro e anche degli Stati, editoria e disponibilità dei contenuti sono mutati profondamente.

L’impianto della scuola invece no.

Come se fosse naturale che nel 2018, ad esempio, dei quindicenni stiano cinque, sei, sette ore al giorno in aule spesso bruttone come facevano i loro bisnonni. O come se fosse ovvio che uno stipendio e uno statuto da funzionario medio bassi fossero gratificanti, come un secolo fa, per persone, maestri e professori, a cui oggi però capita più che essere autorità d’esser terminali di infiniti problemi e disagi. Quindi, prima domanda, siamo sicuri che non occorra un cambio radicale e non solo riformette?

Occorrono idee forti.

L’esistente è fissato su alcuni capisaldi tanto irremovibili quanto inadeguati, 'pilastri' che rischiano di restare in piedi mentre tutto intorno crolla. Le crepe sono evidenti. La scuola spesso è un posto dove i ragazzi e gli adulti mandano ogni mattina i propri 'fantasmi', le 'maschere' ma le persone vere sono altrove. Da qui un diffusissimo senso di stress e di frustrazione e la sensazione di spreco di tempo e energie. Il primo pilastro dell’attuale situazione è che l’educazione dei giovani è compito dello Stato attraverso suoi funzionari. Stranamente mentre su altri campi non meno delicati della cultura e della educazione (dai musei ai teatri) lo Stato, se non altro per motivi economici, chiede l’intervento del popolo (attraverso fondazioni sponsorizzazioni, defiscalizzazioni...) sulla Scuola invece l’iniziativa del popolo è malvista e osteggiata.

Non sarebbe ora di invertire radicalmente la direzione? Inoltre, non sarebbe meglio immaginare per i nostri figli ritmi e luoghi della formazione diversi da quanto avveniva più di un secolo fa? Molte scuole somigliano a palazzoni a metà tra ospedali e riformatori. Passarci dentro sei ore al giorno a chi può giovare? Non è che si tengano lì i ragazzi perché altrimenti non si sa dove metterli? La nostra infatti è una società che non prevede oltre alla scuola una condivisione di tempo tra adulti e giovani, eccetto rare eccezioni come lo sport e qualche gruppo religioso o di volontariato.

Una ricerca svolta da un giovane sociologo dell’Università di Bologna, Giuseppe Monteduro, dimostra che i manager di grandi aziende desiderano assumere ragazzi ben formati su aspetti fondamentali e relazionali invece che infarciti di nozioni. Ma basta stare solo con genitori e professori per trarre tale vera educazione?

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