giovedì 26 giugno 2014
Dopo il Brasile, la necessità di una ricostruzione morale (Italo Cucci)
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​Facile previsione: siamo ai Brandelli d’Italia. Dopo il morso di Suarez, il post Mondiale consiste nel mordere una squadra che ha avuto da noi l’ultimo applauso quando ha castigato l’Inghilterra madre del calcio (e non dimentichiamo che l’Uruguay ne è il padre) e uno schiaffo dopo la beffa del Costarica. Al terzo ostacolo, abbiamo tentato di superarlo con l’italica arte di arrangiarsi, con un’arruffata esibizione di buona volontà tradita dai piedi e dalle menti e dai cuori; concludendo con la tradizionale rissa di sapore elettorale, con chi si dice vincitore pur davanti alla disfatta. Gigi Buffon è stato il migliore in campo, il peggiore fuori, quando con parole dure e rancorose ha condannato – insieme a De Rossi – le "figurine", i giovanottelli che, a suo avviso, hanno portato al fallimento la Nazionale. Come dire – e c’è chi l’ha detto – che si doveva far conto soprattutto dei Vecchi, come ha fatto Tabarez, portandosi appresso tanti reduci dal Sudafrica. Ve lo ricordate il Sudafrica azzurro? Se lo ricorda Buffon? Una pagina da dimenticare, scritta innanzitutto dai due Vecchi migliori, Pirlo e Buffon che, abbandonando il campo per problemi fisici, ci lasciarono in balìa di un calcio minore.Un capitano come lui, influente e rappresentativo fino ai vertici dello Stato, conscio di una situazione che evidentemente non si è rivelata soltanto nelle ultime due partite, doveva come minimo farne partecipe Prandelli, rivelandogli – ma il Ct era cieco e sordo? – la frattura interna che prima o poi sarebbe diventata insanabile. Tutti vanitosi e velleitari, quei ragazzi portati in gita premio in Brasile? Poteva dirlo prima: ci saremmo preparati meglio all’umiliante cacciata.Consiglio a Buffon, a De Rossi, ma in fondo a tutti i tenebrosi azzurri, di rivedersi la partita della Grecia guidata da un capitano non parolibero, Giorgios Karagounis, 37 anni, sceso in campo con forza di cuore e di muscoli a trascinare una squadra malconcia, con il Ct già esonerato, a vincere la partita della vita contro la Costa d’Avorio del miliardario Drogba che qualcuno vorrebbe alla Roma, forse su raccomandazione di Gervinho. La Grecia ha sconfitto la crisi nazionale, l’Italia pallonara – in oltre un secolo chiamata spesso a dar sollievo a un Paese cronicamente inguaiato – l’ha accentuata.Di qui voglio partire, ignorando altri inutili dettagli tecnici, per guardare al futuro, aiutati ahinoi dal Destino che nel giro di poche ore – dico ore – ha puntualizzato (non rivelato) lo stato del nostro calcio: mentre l’Italia usciva sconfitta dal campo, Ciro Esposito consegnava la sua giovane vita alla follia del calcio violento e i Padroni del Vapore (che Giovanni Malagò potrebbe apostrofare quali «Ricchi scemi», come fece il suo illustre predecessore al Coni, Giulio Onesti, nel ’58, quando ai Mondiali neppure arrivammo) erano intenti ad azzuffarsi per i diritti televisivi, la mangiatoia che propone al Campionato cibo avvelenato. Risento ancora le parole della Mamma di Ciro e provo vergogna per questo mondo che da decenni sfida decenza e dignità ignorando i problemi veri: la violenza, innanzitutto, segno di malgoverno istituzionale; eppoi lo sfascio tecnico e morale favorito da un unico scopo vitale per la Lega nell’assenza dolente della Federazione: il business. Di questo Mondiale, annunciato come una guerra fra ricchi e poveri giocata in un Paese ricco di contraddizioni, di un Pil prodigioso e di una miseria angosciosa, trattengo le immagini di allegria, i canti, le grida di gioia, gli abbracci fra uomini, donne e bambini offerti da stadi che rimandano impietosamente a quelle dell’Olimpico assediato dai violenti davanti agli impotenti illustri signori della cosiddetta tribuna d’onore.
Un quadro a dir poco terzomondista, con l’annotazione doverosa che, calcisticamente parlando, il Terzo Mondo siamo noi, traditi dalle istituzioni e dalla bramosia di denaro dei curatori del gioco, oggi curatori fallimentari. Forse è dettaglio di scarsa valenza, nel cinico mondo del pallone, ma l’altro giorno ho nutrito la speranza – fallace – che quei ragazzi in campo giocassero anche per lui, per il ragazzo che stava lasciandoci per sempre. Retorica? Già: così ormai sono etichettati i buoni sentimenti. Ieri i media lanciavano un solo grido, epocale, figlio della storicizzata vigliaccheria di un Paese: «Tutti a casa». Contenti di aver trovato due colpevoli – Prandelli e Abete – nella massa degli sfascisti? E adesso di che si parla, di tattiche, di moduli, di futuri ct milionari? Di Allegri? Sembra un’ironica risposta all’angosciosa richiesta di rinnovamento e di riforme, come indica il Governo per altri lidi. Di coraggio, di pulizia, di intelligenza. Gli stranieri non alle porte ma già sul campo fan pensare alla calata dei barbari, ma non sono loro – i pedatori esotici – la pietra dello scandalo, ché tanti, vedi gli argentini, son qui per guadagnare un gruzzolo da spedire a casa, dove si soffre davvero. Sono i Padroni del Vapore, tutti, a farci vergognare di questo calcio alla deriva; di un campionato intrippato di club mediocri che toglie spazio e respiro alla Nazionale; di mercanti che – secondo i dettami della religione pallonara ben descritta da Desmond Morris – andrebbero cacciati dal tempio. A pedate. Come l’Italia cacciata dal Brasile a morsi, esemplare metafora di una disfatta.
Ho chiesto a Malagò di farsi Onesti, senza ironia naturalmente. Di indire gli stati generali per un’analisi seria dei mali dello sport nazionale per eccellenza. Dico seria, responsabile, approfondita, non come quella che fu prodotta – ad uso dei signori del Marketing – alla vigilia di Calciopoli. Ritrovate quel documento, farcito di bugie, e capirete perché questo calcio è alla deriva. Poi fu Germania 2006, campioni del mondo, il cielo azzurro sopra Berlino mentre su Roma e dintorni s’accumulavano nuvole foriere di tempesta. Una scappatoia alla fine ingloriosa della spedizione brasiliana dobbiamo pur trovarla, ovviamente non tecnica, ovviamente non limitata all’uscita di scena di Abete e Prandelli: tutto il male non viene per nuocere, vien da dire. Nella speranza che si cominci subito la ricostruzione soprattutto morale di questo mondo, partendo da un ricordo e da una preghiera dedicati alla morte di Ciro Esposito, l’unico male vero che nessuno potrà mai curare. Se non la Fede.
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