Caro direttore,
recentemente, dopo esami e contro esami, mi è stato diagnosticato un "guaio fisico" incurabile che fatico a chiamare col suo sacrosanto nome. Non ho davanti né praterie né prati, ma un campetto da calcetto. Paura? Nooo. Tristezza? Sì. E mille ricordi, mi vengono in mente. Quello che ogni giorno mi tormenta ma che alla fine mi mette addosso un pizzico di allegria (sì, ho scritto allegria) è quando, da giovane, tutti erano intorno a me. Avrebbero voluto che andassi in crisi come il matrimonio dei miei. E ogni volta che arrivava una festa comandata, o una semplice domenica, le domande si moltiplicavano. Ti senti solo? Hai notizie di tuo padre? E tua madre come si comporta con te? Io li stavo a sentire tutti. Davo qualche risposta vaga. Ma dentro ero tranquillo.
Mi ero fatto una ragione della mia condizione. Essere figli di separati non era una condanna, ma una sfida anticipata con la vita. Avevo nove anni quando mio padre e mia madre cominciarono a battagliare ogni giorno. I primi tempi, ascoltavo dietro la porta le loro scenate. Litigavano per motivi banali. Ma il disaccordo era profondo. Mio padre rimpiangeva la libertà di quando era scapolo, voleva frequentare gli amici quasi ogni notte. Passava le ore davanti al televisore a seguire le partite di calcio. E mia madre protestava in continuazione. Anche lei reclamava la sua indipendenza. Anche lei aveva le sue amiche che la cercavano, che la trascinavano in serate, penso molto noiose, a teatro. Ma non c’era gelosia tra i due. Credo che né lui né lei abbiano avuto un amante. Forse avrei preferito che ci fosse stata una scintilla di passione nella loro vita andata male. Macché. Si dilaniavano con discorsi ripetitivi. E io là nel mezzo. Un weekend dai nonni, un altro in casa di amici, e un altro da solo, guardato a vista da una baby sitter improvvisata.
Dopo quelle scenate, a turno, mio padre e mia madre mi avvicinavano segretamente. Prima si sfogava lui, che arrivava persino a piangere, a stringermi forte al petto. A chiedermi perdono di non so che cosa. Cresci in fretta, mi diceva, così soffri meno. Io capivo e non capivo. Perché dovevo bruciare le tappe di quell'esistenza che andava ascoltata e anche goduta attimo dopo attimo? Poi toccava a mia madre. Lei mi guardava, in silenzio. Poi mi raccontava di quando ero appena nato. Diceva che in sala parto già sorridevo col dito in bocca. Non ho nemmeno pianto quando ho visto la luce. Mi raccontava dei primi giochi, di come digerivo in pochi minuti tutte le pappe che lei mi preparava. Non veniva mai su con gli anni, non affrontava i problemi. Restava lontana. Ai momenti dei sogni. A tavola, quando ci si trovava tutti e tre insieme la domenica, parlavano come due conoscenti, nemmeno come due parenti lontani. Bollette del telefono, vestiti da comprare per la nuova stagione, e i miei studi.
Io vivevo con mia madre. Lo voleva la legge, e forse lo volevo anch’io. Perlomeno parlava poco, mi lasciava una totale libertà di azione. Mio padre compariva nel fine settimana, due volte al mese. Era puntuale, non saltava un turno programmato dal giudice. Ricordo che mi portava in un ristorante di lusso, quasi a pagare col denaro le mie sofferenze. Poi entravamo in un cinema, il primo che capitava, e ci sorbivamo un film. Dopo un quarto d’ora, lui si addormentava. E io restavo solo con quegli attori freddi sullo schermo. Ogni tanto, quando ci ritrovavamo tutti e tre, mi chiedevano che cosa avrei fatto dopo la maturità. Se Architettura o Legge. Si preoccupavano che la mia anima potesse trovare pace o guerra grazie agli studi. Ma non sapevano che mi ero fatto una ragione di tutto il terremoto in cui mi avevano costretto a vivere. Che ero corazzato. E che a quel punto avrei potuto iscrivermi indifferentemente ad Architettura o a Legge. Pensavo che non fossero le professioni a fare gli uomini, ma gli uomini a fare le professioni. Ma allora davo soddisfazione a mio padre e a mia madre, facendomi vedere preoccupato, incerto... ma dentro avevo la scorza, non riuscivo più a soffrire.
Ho pianto troppi anni in silenzio mentre la baby sitter dormiva davanti al televisore. Non mi ricordo se avevo pianto con lacrime o senza. So che dentro ero arrivato a disperarmi, mi sentivo pronto a tutto. Volevo soltanto restare in pace. E non innamorarmi della donna sbagliata. O il contrario. Non avrei voluto essere io a sbagliare con la donna giusta. Pensavo che la coppia giusta è al cinquanta per cento. Per questo ho perdonato a metà mio padre e mia madre. Condannavo a metà tutti e due. Io stavo nel mezzo. E vivevo. Riuscivo a sognare, se ben ricordo in qualcosa di divino, che il destino mi avrebbe aiutato dopo tante frustate. Ed eccomi qua, direttore.
La nuda e impetuosa intensità di ciò che torna a condividere con me e con gli altri lettori, caro amico, fronteggiando la tristezza accesa dal suo «guaio fisico», dice di un’acuta consapevolezza sia della sua condizione presente sia del "lascito" importante, imperfetto e umanissimo dei suoi genitori, dice della comune, e per ognuno di noi unica, fatica di crescere, di andare e di amare alla quale torna ora con la memoria, ma che già s’è incisa in ogni sua fibra. Sta sperimentando una prova aspra (lei parla di qualcosa di "incurabile", io mi permetto di dirle che l’incurabile in realtà non esiste: non tutto è guaribile, ma di tutto e di tutti possiamo curarci, e in ogni situazione c’è una forma di cura che possiamo ricevere...), mi auguro che il tempo che ne è segnato abbia in serbo per lei anche scintille di luce, capaci di fare un po’ di chiarore e di restituirle intero il profilo e il senso degli "amori a metà" che la vita a volte crea e che noi stessi, spesso, ci permettiamo a stento. Le auguro - e so, facendolo, di parlare a nome di tanti lettori - tutti gli inquieti pensieri e tutta la possibile pace a cui un uomo può aspirare e a cui ha diritto. È un augurio che si fa preghiera: oso rivolgerla, io, anche per lei, accompagnando i suoi pensieri saettanti e profondi, allo «sconfinato Amore».