mercoledì 19 agosto 2015
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Già solo la proposta del ministro Dario Franceschini di nominare dei direttorimanager per i venti poli museali di spicco del Belpaese aveva suscitato subito molte polemiche: si paventavano rischi di ridimensionamento dell’autorità delle Soprintendenze e di vedere ridotto il patrimonio artistico a merce pregiata per il consumismo dell’industria culturale (magari con disinvolti prestiti all’estero di sommi capolavori in cambio di moneta tintinnante per promuovere gli stessi musei).  C’è da dire che in fatto di consumismo culturale non si scherza nemmeno adesso: orde di turisti in calzoncini corti e magliette, che parlano ad alta voce tutti insieme, che si muovono a nugoli da una stanza all’altra dei nostri musei, che mangiano mentre si spostano, rispondono ai cellulari, seguendo l’ape regina, cioè la guida turistica. Sarebbe questa la democrazia culturale che vogliamo? E non si faccia la solita obiezione sull’arte come prodotto elitario. È solo una questione di buon gusto (in un’epoca dove s’incentiva a piè sospinto ogni forma di kitsch, a cominciare da quello urbanistico di tante archistar). Molti anni fa, quasi trenta, mi capitò di intervistare l’architetto Leonardo Benevolo, il quale mi disse che i giapponesi che venivano in Italia (all’epoca il Sol Levante era economicamente fortissimo) si meravigliavano che il ministero dei Beni culturali fosse trattato come una Cenerentola, mentre, secondo loro, avrebbe dovuto essere addirittura gestito ad interim dal Presidente del Consiglio, perché il patrimonio artistico ai loro occhi rappresentava la miniera di diamanti del Belpaese. E arrivò Walter Veltroni con quello slogan che ancora oggi corre sulla bocca di tanti: i beni culturali sono il nostro petrolio. Ma l’estrazione del petrolio, si sa, è anche molto inquinante.  Insomma, è da parecchio che si cerca di rendere 'fruibile' e 'redditizio' un patrimonio il cui vero e primo problema è la scarsa manutenzione e la insufficiente gestione ordinaria (mentre si fabbricano miriadi di mostre temporanee con impiego di capitali pubblici e privati). I venti nuovi direttori scelti da un comitato di esperti internazionale voluto da Franceschini sono il risultato di una scrematura operata su circa 1.200 curricula. Sarebbe interessante sapere quanti tra i concorrenti erano italiani e quanti stranieri. In ogni caso sette su venti vengono dall’estero (scelti direttamente dal ministro), quattro sono italiani che rientrano in patria dopo essere stati a lavorare in prestigiose istituzioni straniere, gli altri vengono da esperienze italiane. L’obiettivo è quello di rendere i musei delle 'macchine' più efficienti, sia sul piano culturale sia su quello economico. La qualità dei prescelti è certamente elevata, ma il problema era un altro. Una vera riforma o rivoluzione che dir si voglia doveva separare la figura del manager da quella del direttore scientifico: il primo avrebbe operato con una gestione orientata a valorizzare anche sul piano comunicativo il museo, il secondo ne avrebbe garantito la tutela e la correttezza scientifica. In Italia una cosa del genere era forse improponibile: ve l’immaginate un manager e uno storico dell’arte che collaborano pacificamente allo stesso risultato, cioè la migliore organizzazione, fruizione e qualità espositiva del museo? Probabilmente sarebbero state liti continue e paralisi della gestione dell’intera struttura. Per questo, vien da pensare, Franceschini ha cercato di 'svecchiare' scegliendo storici o esperti di musei che abbiano dimostrato capacità manageriali e competenza culturale.  Un compromesso, dunque un atto meno nuovo di quello che si dice, e l’apertura 'internazionale' della rosa è anche un segnale del nostro governo all’Europa (come se volessimo mostrare qualcosa ai nostri partner). Resta da chiedersi secondo quali criteri meritocratici un direttore degli Uffizi come Antonio Natali, che ha firmato negli ultimi cinque anni alcune delle mostre più importanti tenutesi in Italia (da Bronzino al tandem Pontormo-Rosso, per dirne solo due), sia stato scartato per far posto a Eike Schmidt (studioso di tutto rispetto: ma se si ha già un bravo e competente direttore perché sostituirlo?); mentre si è data la direzione della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma a Cristiana Collu, una giovane curatrice che dirigendo il Mart di Rovereto non ha particolarmente brillato (e si è dimessa anzitempo). A questo punto, però, c’è da augurarsi che le scelte del ministro paghino in termini di risultati. Lo vedremo nei prossimi anni.
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