mercoledì 4 novembre 2009
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«Ero malato e mi avete visitato», dice uno dei passi più intensi del Vangelo di Matteo, quello sulla carità, la stessa parola che dal greco può essere tradotta come amore. Il malato, infatti, non ha bisogno solo di una terapia, ma dell’accoglienza, della parola, di ciò che è capace di trasformare la sofferenza, renderla umana, darle un senso. Nel segno di questa evidenza, l’Istituto superiore di Sanità ha stipulato un accordo con l’AIMaC, l’associazione di malati di cancro, per realizzare una Guida utile su tutti i servizi disponibili sul territorio nazionale che sarà presentata oggi, 4 novembre, nel nostro Istituto insieme a un’indagine conoscitiva della stessa AIMaC sul bisogno di sapere dei malati di cancro. Un’operazione che significa fare rete intorno al paziente nel momento della massima fragilità, collegando on line le istituzioni, le strutture sanitarie e i cittadini, mettendo al servizio dei pazienti l’eccellenza della nostra Alleanza contro il cancro.Si vuole costruire un vero e proprio network per spiegare, per parlare con i malati, per non lasciarli soli in un labirinto di domande che a volte i ritmi e i tempi della medicina moderna non hanno il tempo di affrontare. E spesso neanche la cultura per farlo. L’idea di una medicina scientista, l’illusione che a ogni agente patogeno corrisponda una malattia, e quindi una terapia (postulato di Koch), ha distolto la medicina dal concetto di cura complessiva, dimenticando la multifattorialità presente in molte malattie.Eppure la prima cura - se è intesa a servizio dell’uomo - non può prescindere dall’accoglienza, dal ricovero. Lo aveva capito bene la Chiesa che già nel 325, con la risoluzione del Concilio ecumenico di Nicea, aveva stabilito che in ogni città cristiana, nei monasteri e nei vescovati, si riservasse un posto a pellegrini, malati e vedove. Il luogo della cura dell’anima, dunque, diventa luogo della cura del corpo. Un primo atto, in un certo senso, di sanità pubblica che passava attraverso l’affermazione del concetto dell’identità della malattia con la sofferenza. Non è un caso, infatti, che sono i monaci ad assicurare e conservare la trasmissione della letteratura medica antica, delle conoscenze sul farmaco, costituendo, in qualche modo, per molto tempo, una forma organizzata di cura della medicina, dove il chierico è colui che cura contemporaneamente l’anima e il corpo.Quella lezione a distanza di secoli è ancora valida. La medicina, separata dall’humanitas delle cure, è una medicina insufficiente. L’arte di curare, come era considerata nella Grecia antica, ha come obiettivo sconfiggere la morte e la malattie, due cose che hanno a che fare con l’essenza più profonda dell’uomo, con la sua  più intima fragilità, con ciò che, qualunque sia il suo grado sociale o culturale, lo rende nudo di fronte alle domande più dolorose.Anche la scienza ci dice di come per esempio un lutto o uno stress profondo possano abbassare le difese immunitarie e favorire l’insorgere delle malattie. Dunque il percorso terapeutico non può dimenticare la cura globale del corpo. Possiamo bloccare con i farmaci molte patologie e i progressi della medicina hanno aumentato a dismisura la sopravvivenza, per esempio, dei malati di cancro anche solo rispetto a dieci anni fa. Ma vincere una malattia non può significare per un uomo soltanto ripristinare alcune funzioni vitali per l’organismo. E soprattutto curare un uomo non può prescindere dalla cura, dall’accoglienza e dalle informazioni che sono un suo diritto. Perché la parola ha un posto speciale nel cuore dell’uomo, è la sua possibilità di comprendere, di fare in modo che il dolore trovi una ragione che possa diventare un’esperienza umana e, per chi ha fede, anche un tramite con Dio.
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