mercoledì 4 ottobre 2023
Il 5 ottobre 2003 veniva uccisa in Somalia la missionaria laica di Forlì, che per molti anni ha lavorato e lasciato la sua eredità in una zona poverissima del Kenya, da cui fu espulsa
Annalena Tonelli

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«Andiamo da Annalena!». Sono passati più di cinquant’anni da quando Annalena Tonelli metteva piede per la prima volta in Africa. Ed esattamente venti dalla sua uccisione il 5 ottobre 2003 a Borama in Somaliland. Eppure, le tracce lasciate da questa laica missionaria originaria di Forlì - donna assolutamente fuori dall’ordinario per radicalità di fede ed eccezionalità di impegno - sono ancora vive e continuano a dare frutto. Specialmente a Wajir, nell’est del Kenya, dove era arrivata nel 1969. E dove, ancora oggi, la gente usa la stessa espressione di allora quando deve recarsi al Centro di riabilitazione o al dispensario, che sono in quella che era stata la sua casa: «Andiamo da Annalena!».

In questo deserto del Kenya, spazzato dal vento e assetato da una lunghissima siccità, con persone e bestiame che sopravvivono a stento, quella di Annalena Tonelli è una memoria viva. Viva nelle moltissime persone che l’hanno conosciuta e hanno beneficiato del suo aiuto e che custodiscono un ricordo grato e ammirato; viva nell’impegno delle suore camilliane che ne portano avanti le opere in campo sanitario; viva anche in chi, pur non avendola mai incontrata o non sapendo nulla di lei, continua a identificare quei luoghi come quelli di Annalena. E a chiamare con il suo nome anche il pick-up che funge da ambulanza e che ogni mattina raccoglie bambini e disabili nei villaggi per condurli a fare fisioterapia; un tempo portava anche i malati nel centro di cura della tubercolosi - una delle grandi battaglie di Annalena - che è proprio di fronte alla sua casa e che oggi è gestito dallo Stato. «Partii decisa a gridare il Vangelo con la vita sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza - scriveva poco prima di essere uccisa -. Credevo di non potermi donare completamente rimanendo nel mio Paese… Compresi presto che si può servire e amare dovunque, ma ormai ero in Africa e sentii che era Dio che mi ci aveva portata e lì rimasi nella gioia e nella gratitudine».

La sua dedizione assoluta ai più poveri e marginalizzati, la sua «invincibile passione per il Vangelo e per l’uomo ferito» - come avrebbe detto lei stessa - avevano portato Annalena a scegliere Wajir come avamposto della sua testimonianza e del suo servizio, una località ancora oggi remota e abbandonata, abitata quasi esclusivamente da pastori somali musulmani e minacciata dal terrorismo islamista dei gruppi Shabaab della Somalia. «I cristiani continuano a essere un target», ci dice suor Rosemary, superiora della comunità delle camilliane composta da quattro religiose keniane e una ruandese. Ci mostra un messaggio di alert, in cui sono indicati alcuni luoghi a rischio, tra cui la piccola chiesa cattolica, la scuola elementare della parrocchia, la loro stessa abitazione e il centro di riabilitazione. «Qui i cristiani sono una piccolissima minoranza, ma sono generalmente rispettati dalla gente del posto, anche grazie all’enorme lavoro che Annalena ha fatto e alla sua vicinanza a tutta la popolazione», ci spiega il parroco, padre Clement Mutinyi all’uscita dalla Messa, presidiata da una pattuglia della polizia.

Anche nella casa delle suore, tutte le sere arrivano due poliziotti per garantire la sicurezza notturna. Ormai è diventata una routine e non ci fanno più nemmeno caso. «Quando ci hanno proposto di venire a Wajir abbiamo scelto, secondo il nostro carisma, di portare avanti soprattutto le iniziative sanitarie. È un onore e una responsabilità, per noi, farlo nel solco di Annalena». Poco distante, vicino al piccolo aeroporto, le suore di Sant’Anna sono l’unica altra presenza cristiana nella zona. Si dedicano soprattutto all’istruzione, così come Qali Mohamed, una delle “figlie” amatissime di Annalena, oggi responsabile della scuola per sordomuti. «La mia famiglia viveva nel deserto, in una capannuccia fatta con pochi rami. La mamma era morta e il papà molto anziano. Annalena ha chiesto agli anziani di portarmi con sé per farmi studiare, una cosa che all’epoca era praticamente preclusa alle bambine. Sono cresciuta con altri “figlie” e figlie” di Annalena e sono riuscita ad arrivare sino all’università», ricorda oggi con orgoglio e riconoscenza, ma anche con la fatica di portare avanti una scuola con più di 200 disabili in un contesto che tende a rifiutarli.

«Purtroppo - fa notare Qali - molti vengono tuttora nascosti nei villaggi, ma le cose stanno lentamente cambiando». Le difficoltà però sono ancora enormi, anche perché la scuola non ha fondi né materiali e spesso il governo non fornisce neppure il cibo: «È stato uno shock per me quando espulsero Annalena nel 1985 in seguito al massacro di Wagalla!», ricorda con dispiacere. Un massacro perpetrato dai militari keniani nei confronti di una comunità locale, di cui Annalena fu testimone e che aveva denunciato. Per questo venne dichiarata persona non grata. Solo molti anni dopo, il governo del Kenya avrebbe riconosciuto le responsabilità dei militari e riabilitato pure Annalena, che nel frattempo, però, si era già trasferita in Somalia, dove visse tutte le tragiche vicende della caduta di Siad Barre, per poi trasferirsi a Borama nel 1996. In questo angolo di Somaliland, aveva ripreso tutte le sue attività con grande impegno e abnegazione e aveva continuato a portare avanti nel nascondimento - lei, unica cristiana - una testimonianza autentica di fede “rocciosa” sino alle estreme conseguenze. Proprio nel cortile del suo amato TB Centre - il miglior centro antitubercolare di tutta la Somalia - Annalena trovò la morte nella sera del 5 ottobre 2003 per mano di due sicari che verranno successivamente condannati.

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