mercoledì 9 ottobre 2013
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​I dati dell’indagine Ocse sulle competenze alfabetiche e matematiche degli adulti sembrano condannare ancora una volta il nostro Paese. La ricerca, che ha coinvolto 24 Paesi dell’Ocse, ci relega all’ultimo posto per competenze alfabetiche e al penultimo per quelle numeriche. Eppure rispetto alle precedenti indagini l’Italia ha registrato una significativa diminuzione della percentuale di persone tra i 16 e i 65 anni che si trovano nei livelli più bassi di competenze, e la riduzione della forbice tra giovani e anziani. Ma era talmente basso il livello di competenze rilevato nel periodo 1994-98 e nel 2006-07 che i nostri miglioramenti, pur essendo i più significativi rispetto a quelli degli altri Paesi, non hanno ancora consentito di cambiare radicalmente la nostra collocazione.

Le indagini internazionali e nazionali dovrebbero servire a capire dove occorre lavorare per migliorare, non solo per fare i titoli di giornale. In questo senso, sono due i dati su cui riflettere. I ragazzi tra i 16 e i 29 anni che non raggiungono il livello minimo di competenze indispensabili «per vivere e lavorare nel XXI secolo» sono troppi. Non è un caso che tra i Neet solo il 5% raggiunga questa soglia. Tra loro c’è quel 18% di giovani che escono dalla scuola senza un diploma o una qualifica professionale. Sono ragazzi che la scuola non è riuscita a incontrare, a motivare e ad appassionare. Non basta tenerli più tempo in classe perché questo accada. In certe zone del Paese rimanere a scuola più tempo nel primo ciclo può voler dire non stare sulla strada, ma questo non basta. Occorre garantire la qualità della proposta. Ci sono alcune competenze di base che dovrebbero essere acquisite prima dei 14 anni e ci sono talenti che chiedono un modo diverso di fare scuola. Non servono «discorsi» contro la dispersione scolastica o sull’integrazione, servono fatti concreti.

La discussione sul decreto scuola, che prende il via nei prossimi giorni, deve diventare l’occasione per valorizzare il piano appena avviato in molte regioni per la costituzione di poli tecnico-professionali, reti tra istituti tecnici, istituti professionali, centri di formazione professionale e realtà produttive, con lo scopo di potenziare l’offerta formativa, adeguare i curricula, migliorare la qualità dei percorsi di alternanza scuola-lavoro, promuovere l’apprendistato, la formazione dei docenti e il placement dei ragazzi.

Il secondo dato su cui riflettere riguarda il tasso di partecipazione ad attività di apprendimento formale ed informale degli adulti. Siamo fermi al 24%, a fronte di una media Ocse del 52%. Se incrociamo questo dato con il fatto che in Italia oltre 28 milioni di cittadini sono in possesso al massimo di un titolo di studio conclusivo del primo ciclo (Istat 2011) e che il nostro indice di vecchiaia è il più alto d’Europa, si può comprendere l’urgenza di un piano generale per l’apprendimento permanente. Esiste un «sommerso» di competenze e di esperienze che andrebbe riconosciuto, e sono necessarie quelle misure di riqualificazione professionale senza le quali è impossibile trovare un lavoro o costruirselo dopo che lo si è perso a 40 o a 50 anni. In quest’ottica la recente legge sull’apprendimento permanente e i centri per l’istruzione degli adulti possono rappresentare un buon punto di partenza. Ma solo una logica sussidiaria che sappia valorizzare gli ordini professionali, le associazioni e le categorie produttive, le imprese, le università, le scuole statali e quelle paritarie, i centri di formazione professionale, le università, le 62 Fondazioni ITS (istituti tecnici superiori), i Centri di ricerca, può avviare azioni diffuse ed efficaci.

Una politica statalista, centralista e assistenzialista non potrà reggere il peso di queste sfide vertiginose e improcrastinabili. Solo così gli italiani potranno diventare, nel tempo, sempre più «competenti».

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