Il canto dell'arameo errante
sabato 9 settembre 2017

Anche se non la leggi, sei nella Bibbia
E. Canetti, Il cuore segreto dell'orologio

Quando una comunità vive una crisi profonda, lunga e dall’esito incerto, ciò che veramente è in gioco è il nesso passato-futuro. Perché se è vero che è solo un buon futuro che rende benedizione il passato, lo riscatta e lo libera dalla trappola della nostalgia, è altrettanto vero che senza una buona storia di ieri da dire oggi non si hanno parole nuove per raccontare e raccontarci un domani buono e credibile. Le crisi individuali e collettive sono carestie di futuro e carestie di passato, perché è l’amicizia tra il passato e il futuro che rende bello e fecondo il presente, in ogni stagione della vita. Anche quando è prossimo il tramonto, e l’ombra del passato diventa lunghissima, i ricordi ci nutrono e ci accompagnano sempre, al presente non basta il solo passato, per quanto sia stato grande e stupendo. Dobbiamo attendere una nuova parola, di rivedere il volto di una figlia, che anche oggi verrà, o sperare di vedere, finalmente, quel volto di Dio custodito nel desiderio di tutta una vita. Per vivere bene il tempo della crisi è allora indispensabile avere un futuro entusiasmante che fiorisce da un presente riconciliato con un passato vissuto come dono e promessa, oltre le ferite, le delusioni, i fallimenti. È nella giusta reciprocità tra radici e gemme, tra bereshit ed eskaton, dove si trova veramente la possibilità di continuare a generare vita e futuro ora.


«Questa parola fu rivolta a Geremia da parte di YHWH dopo che il re Sedecìa ebbe concluso un accordo con tutto il popolo che si trovava a Gerusalemme, di proclamare la libertà degli schiavi: ciascuno doveva rimandare libero il suo schiavo ebreo e la sua schiava ebrea, così che nessuno costringesse più alla schiavitù un giudeo suo connazionale» (Geremia 34, 8-11). Il capitolo 34 del libro di Geremia contiene il racconto di un fatto avvenuto a Gerusalemme durante l’assedio dei babilonesi. Geremia riceve una parola che tocca il cuore della vita sociale e politica del suo popolo, perché riguarda la salvezza e la liberazione di uomini e donne che si trovavano in stato di schiavitù. In quel tempo un ebreo poteva diventare schiavo di un altro ebreo essenzialmente per debiti. Erano schiavi economici. La Legge ricevuta da Mosè sul Sinai (Esodo 21) prevedeva che la schiavitù economica non potesse durare più di sei anni (nel codice di Hammurabi massimo tre anni: § 117).

Nell’antichità i debiti insoluti erano una cosa molto seria, ma ancora più seria e viva era la coscienza collettiva e religiosa che quella schiavitù non poteva essere per sempre, che un fallimento sul piano economico non doveva diventare una condanna a vita, che l’economia non era l’ultima parola - una coscienza che noi abbiamo smarrito. La liberazione degli schiavi era quindi uno dei grandi precetti legati alla istituzione dello shabbat: nel settimo anno gli schiavi dovevano tornare liberi. La liberazione degli schiavi era, poi, in Israele un segno e un memoriale della grande liberazione dalla schiavitù dall’Egitto, sempre presente e vivissima nel cuore collettivo di quel popolo. Quella prima liberazione da quella schiavitù doveva insegnare ad Israele che Dio è un liberatore, che non vuole uomini schiavi ma liberi, che YHWH è Dio della libertà. Ma, come ricorda anche Geremia, «i vostri Padri non mi ascoltarono e non prestarono orecchio» (34,14). E così, nonostante la Torah, gli schiavi non venivano liberati, e molti ebrei si trovavano in una prolungata condizione di schiavitù e di asservimento, proprietà privata di altri ebrei, usati come strumenti e cose per soddisfare i bisogni di altri. Questo episodio prende allora le mosse da una condizione di profanazione generalizzata dell’Alleanza e della Legge, che trasforma in straordinario un precetto che avrebbe dovuto far parte della vita ordinaria del popolo.

Dal racconto veniamo a sapere che dapprima il popolo obbedisce, e gli schiavi vengono effettivamente liberati. Ma poco dopo accade un autentico colpo di scena, uno di quelli ai quali ci sta abituando il libro di Geremia (ma noi non dobbiamo abituarci). Quei liberatori «tornarono a prendere gli schiavi e le schiave che avevano messo in libertà e li ridussero di nuovo ad essere schiavi e schiave» (34,11). Siamo di fronte ad un pentimento all’incontrario, a una conversione perversa che annulla la prima conversione buona. Il popolo, che finalmente aveva ascoltato il profeta, cambia idea e ristabilisce l’originaria condizione iniqua. Non sappiamo le ragioni di questo pentimento – forse un allentamento dell’assedio di Nabucodonosor che produsse una nuova ondata di ideologia nazionalistica e anti-Geremia. Ciò che sappiamo è che quel patto di liberazione non era stato interiorizzato dal popolo, era rimasto in superficie; e così bastò una crisi o un’attenuazione della paura per violare quella promessa, l’Alleanza e la parola di Geremia. Quella buona e giusta risoluzione collettiva non ebbe sufficiente forza per durare.

Nei patti l’elemento cruciale è la durata. Posso, sinceramente, pentirmi e promettere di cambiare vita, lo possiamo fare anche insieme, ma solo il tempo è la vera prova che quella conversione era abbastanza profonda per durare e così produrre un cambiamento vero. Solo Dio (e i profeti veri) possono cambiare la realtà delle cose con la parola, dicendola. Anche noi possiamo e dobbiamo iniziare un cambiamento dicendolo, donandoci l’un l’altro parole sincere che dicono il desiderio e il bisogno di ricominciare. Ma se e finché quelle parole non diventano azioni, fatti, cose, carne, mani e gambe, possiamo in ogni momento scendere in strada e riprenderci gli schiavi che avevamo appena liberato. Finché il tempo non scorre nella carne nostra e in quella degli altri trasformandola, non possiamo sapere il grado di verità delle parole che sinceramente abbiamo pronunciato. La verità delle nostre parole e di quelle degli altri ci si rivela solo quando l’abbiamo detta anche con il sudore, con le braccia, con le lacrime – forse non sapremo mai se alcune parole decisive della nostra vita erano vere, ma possiamo continuare a sperare che lo fossero, almeno desiderarlo.

Ma i pentimenti perversi più gravi e tremendi sono quelli collettivi, quando una comunità, un popolo, una intera generazione rinnega le parole e i gesti che aveva detto in alcuni momenti luminosi della propria storia. Rialzano muri che un giorno avevamo abbattuto, chiudono frontiere che un giorno, ascoltando una parola, avevano aperto. Facciamo, di nuovo, morire i bambini in un mare tornato loro nemico. A questo triste episodio di infedeltà il libro di Geremia fa subito seguire una meravigliosa storia di segno opposto. È il racconto della fedeltà dei Recabiti, che ci mostra ancora un nuovo volto di Geremia, attraverso un suo inedito gesto profetico: «Récati presso la comunità dei Recabiti, parla con loro, e conducili in una delle stanze del tempio di YHWH e offri loro del vino» (35,2). I Recabiti erano una comunità nomade, che a un certo punto della sua storia si era unita a Israele e alla sua religione. Il suo fondatore, due secoli prima di questo incontro con Geremia, aveva stabilito che quella comunità restasse nomade, non bevesse vino, non costruisse case né coltivasse vigne – forse il non coltivare vigne e il non bere vino erano due precetti collegati, in comunità sostanzialmente autarchiche. Geremia conosce la loro legge, ma ugualmente offre loro dei boccali di vino: «Essi dissero: ’nostro Padre Ionadab, figlio di Recab, ci ha ordinato e così durante la vita intera ci asteniamo dal vino noi, le nostre mogli, i nostri figli, le nostre figlie, non edifichiamo case da abitare, non abbiamo né vigne, né campi, né sementi» (35,6-9). Geremia loda questa comunità fedele, e profetizza loro futuro e fecondità: «YHWH ha detto: "A Ionadab, figlio di Recab, non mancherà mai uno che stia al mio servizio"» (35,19). Le vocazioni sono il sacramento delle comunità fedeli.

In un momento di infedeltà generalizzata, è una comunità nomade, emigrata in città per cercare di sfuggire a una guerra, non appartenente alle dodici tribù di Israele, a donarci una testimonianza di fedeltà, e a offrire una consolazione al profeta. Questa lode per i Recabiti non è però estemporanea nel libro di Geremia e nella Bibbia, che ci narrano un rapporto ambivalente e in genere critico nei confronti della città. Il primo cittadino fu Caino, e i primi tempi fedeli di Israele sono un racconto di nomadi e di tende. Quando finalmente Israele abitò la terra promessa, iniziò anche la contaminazione della sua religione, subì l’influenza dei culti cananei, e cedette al sempre presente peccato di idolatria. Per i profeti Gerusalemme è città santa, ma anche città prostituta. Fermarsi, costruire case e piantare vigne fu l’inizio di un decadimento spirituale e identitario del popolo, che era giunto fino alla corruzione generalizzata che Geremia ci sta narrando.

Ogni storia d’amore inizia nomade. Si cammina decisi e felici dietro una voce verso il futuro. Anche se attraversiamo il deserto non lo vediamo, perché ciò che veramente vediamo e udiamo sono una voce meravigliosa e una tenda mobile. Poi arriviamo alla terra promessa, ci fermiamo, edifichiamo il culto, il tempio, e iniziamo la costruzione della "casa, della vigna, dei campi". Le culture e i culti vicini ci affascinano e ci seducono, quella voce ci appare sempre più lontana, tenue, la confondiamo con gli ammalianti canti degli idoli. Una notte, qualche volta, sogniamo quel deserto ormai lontano, il primo amore, la tenda povera, la purezza della prima voce. Qualcuno, dopo questo sogno verissimo, smonta le costruzioni, lascia i campi e le vigne, e si rimette a camminare in un nuovo deserto, da solo o con altri. Altri restano nella città, come Geremia, ma ricominciano a cantare il canto del deserto e della sposa. E ci dicono che l’arameo errante è la condizione umana, che la vera promessa non è una terra ma una tenda itinerante su una strada infinita. E quando incontrano un nomade, un migrante o un vagabondo, scorgono in lui una parola di salvezza, e lo benedicono.

l.bruni@lumsa.it

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