giovedì 6 marzo 2014
E anche la Cina aumenta le spese per gli armamenti.
di Raul Caruso
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La crisi in Ucraina e il parallelo annuncio delle autorità cinesi di un ulteriore aumento della spesa militare del 12,2% hanno richiamato l’attenzione sul tema – mai dibattuto abbastanza – delle conseguenze di lungo periodo della spesa militare. In particolare sia la Russia sia la Cina negli ultimi anni hanno visto crescere le spese militari a un ritmo maggiore di quanto non sia aumentato il Prodotto interno lordo, cioè la ricchezza complessivamente prodotta.Una politica economica finalizzata all’aumento delle spese militari costituisce una strada pericolosa da percorrere per due motivi. Da un lato le spese militari costituiscono un impegno improduttivo per l’economia che spiazza gli investimenti privati nei settori produttivi, fa salire il debito pubblico, fa aumentare rendite e corruzione. Dall’altro, la spesa militare invoglia i Paesi a intraprendere azioni militari con una probabilità decisamente più elevata. La crisi tra Russia e Ucraina ne è un esempio. La tensione tra i due Paesi è arrivata a un punto tale in cui l’uso aperto della forza militare è ormai una possibilità concreta. Il comportamento russo poteva essere considerato prevedibile non solo per i precedenti in Cecenia e Georgia, ma anche in virtù del fatto che esso rappresenta la conseguenza se non l’inevitabile passo finale di una politica economica strumentale al riarmo. L’economia russa, infatti, (spesso analizzata con eccessiva faciloneria ed entusiasmo da molti osservatori) è, attualmente, una combinazione di eccessiva dipendenza da risorse naturali, bassa produttività nel settore manifatturiero, pochi investimenti privati e spese militari in crescita costante. Tale miscela è esplosiva poiché essa è foriera di declino economico nel medio periodo e – come è chiaro in questi giorni – volano per intraprese belliche. La probabilità di azioni militari, infatti, aumenta inevitabilmente quando un’eccessiva spesa militare si associa a una crescente debolezza strutturale dell’economia.
Di tale evoluzione sono responsabili Vladimir Putin e il suo gruppo di potere. All’indomani della Guerra Fredda, infatti, la Russia aveva drasticamente tagliato le sue spese militari. Ma una volta salito al potere Putin alla fine del 1999, in pieno dissesto socio-economico, il cambio di rotta risulta evidente: all’auspicata stabilizzazione macroeconomica sono associati, infatti, l’offensiva militare in Cecenia e spese militari che aumentano in un solo anno del 36%. Negli anni che seguono la tendenza si consolida. Il tasso medio annuo di crescita delle spese militari nel periodo 2000-2012 è pari all’11% mentre nello stesso periodo il tasso medio di crescita del Pil è solo del 5%. Emblematico è il fatto che tra il 2008 e il 2009 quando la grande crisi finanziaria internazionale si manifesta in tutta la sua virulenza, il Pil russo crolla dell’8%, il settore manifatturiero del 16%, ma le spese militari aumentano comunque di quasi il 6%. Vischiosamente, la combinazione petrolio/investimento militare ha modificato in pochi anni la natura strutturale dell’economia russa. I dati sono chiari. Nel 1998 petrolio e altri idrocarburi costituivano il 40% delle esportazioni mentre un altro 29% era rappresentato da beni manufatti. Nel 2012 il 70% dell’export russo è ora costituito da idrocarburi mentre i beni manufatti contribuiscono alle esportazioni solo per il 14%. All’interno, consumi e investimenti privati ristagnano e la produttività del lavoro equivale solo al 37% di quella americana e circa alla metà di quella italiana.
L’azione militare russa, quindi, seppure avesse successo in termini strategici, non risolverà in ogni caso i problemi del futuro declino economico del Paese. Essa viceversa accelererà lo sgretolamento di un sistema economico fragile e dipendente dai prezzi internazionale di petrolio e gas naturali. Il più elevato grado di insicurezza farà diminuire drasticamente esportazioni e investimenti esteri, depotenziando in questo modo potenziali canali per miglioramenti di produttività e accumulazione di capitale nel settore privato. A dispetto dei proclami, quindi, Putin sta condannando al declino l’economia, violando in questo modo gli interessi reali dei cittadini russi, e contestualmente sta paradossalmente accelerando la fine del suo regime che diviene progressivamente non più sostenibile dal punto di vista economico. La spirale distruttiva che si è innescata è destinata, purtroppo, a non arrestarsi in tempo breve ma a ripresentarsi e rimodellarsi. Invertire questo processo è possibile ma il nuovo corso dovrebbe basarsi su una stretta cooperazione e integrazione economica con i Paesi guida dell’economia mondiale, vale a dire Stati Uniti, Unione Europea e Cina. La Russia di Putin, però, a questo punto è sola nella sua ossessione militare e la strada per l’integrazione in un’economia globale è divenuta incredibilmente tortuosa.
Un discorso diverso è da farsi rispetto alle scelte di Pechino. La Cina negli ultimi dieci anni ha visto crescere il proprio Pil a un tasso medio annuo del 10% e le spese militari a un tesso medio del 12% annuo. Ma, quantunque il margine tra i tassi di crescita di crescita sia a favore delle spese militari, la struttura dell’economia cinese suggerisce una crescente integrazione con l’economia globale e quindi probabilmente relazioni, per quanto difficili, meno ostili con i Paesi occidentali. Più del 90% delle esportazioni cinesi è infatti costituito da beni manufatti che accedono ai mercati globali e solo poco più del 5% è costituito da carburanti o altre materie prime. A differenza della Russia, pertanto, la Cina ha nella manifattura la sua forza che garantisce un percorso di sviluppo nel lungo periodo, pur mostrando qualche complessa fragilità nei settori finanziario e delle costruzioni. La nota dolente è nella diminuzione del tasso di crescita della produttività del lavoro, che dopo essere cresciuta a un ritmo del 18% nel periodo 2008-2012 ha rallentato al 9%, rimanendo quindi ancora lontana dagli standard occidentali. Essa, in particolare, in chiave comparata equivale a meno di un quinto della produttività americana. L’attenzione cinese per il riarmo, per quanto criticabile, nel medio periodo non dovrebbe costituire una minaccia concreta alla pace regionale e internazionale.
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