venerdì 20 luglio 2012
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Caro direttore,
vorrei segnalarle il "caso" della nostra famiglia. Nel 2009, infatti, mia moglie e io abbiamo adottato una bimba che aveva già compiuto sei anni. Una scelta di cui siamo felicissimi, anche se il trattamento che abbiamo subìto da parte di un ente previdenziale appare quanto meno… discutibile. Provo a esporlo. Appena arrivata la piccola, mia moglie (psicologa e libera professionista) si mette in maternità. Nostra figlia aveva un grande bisogno di una mamma, ancor prima che di un papà. Non sto qui a raccontare la sua storia, dolorosa come tante simili alla sua. Del resto, se non avessero storie dolorose, questi bimbi non avrebbero bisogno di nuovi genitori e di una nuova famiglia. Quindi, proprio per questa che potremmo diagnosticare come forma di "mammite acuta", mia moglie ha dovuto interrompere quasi del tutto, e all’incirca per un anno e mezzo, il suo lavoro. Che cosa facciamo? Chiediamo l’indennità di maternità. Anche perché sappiamo che, dalla Finanziaria 2008, su iniziativa dell’allora ministro Rosy Bindi, il trattamento dei genitori che adottano bimbi italiani è stato equiparato a quelli che adottano bimbi "stranieri". Fino ad allora infatti, mentre per i bimbi adottati all’estero, l’indennità era prevista sia che avessero un giorno sia che fossero a un passo dalla maggiore età, per quelli italiani era prevista solo nel caso avessero meno di sei anni. Una norma discriminatoria e poco attenta ai bisogni dei bimbi prima ancora che dei genitori. Nel 2008 si è dunque sanata quella discriminazione. Tutto a posto? Nemmeno per idea. Almeno non per noi. Perché l’Ente previdenziale degli psicologi (Enpap) ha ritenuto di non adeguare il suo regolamento alle nuove norme, tenendo in piedi, nell’erogazione delle indennità, la vecchia normativa. Noti che non stiamo parlando di un ente qualunque, ma dell’ente degli psicologi quello che più di ogni altro dovrebbe avere a cuore le persone intese come anima+psiche+pensiero+cuore+emozioni+
corpo+bisogni... Che fa, dunque, l’ente? Respinge la domanda. Che facciamo noi? Ricorso, attraverso la consulenza di un avvocato. Con un piccolo dettaglio: il ricorso va inoltrato presso lo stesso organismo che in precedenza ha respinto la domanda. In pratica chiedendogli di fare ammenda con tante scuse. Missione impossibile. Difatti, la richiesta, come da copione, viene respinta una seconda volta. Cosa fare ancora? Ricorso in Cassazione, ci dicono. Ma a quale prezzo? Un pacco di soldi che, tra l’altro, in caso di vittoria non sarebbero neppure risarciti. Quindi, se tutto andasse bene, il massimo che otterremmo sarebbe una "vittoria morale", ma non certo… monetaria. E se perdessimo? Come dice il saggio? Cornuti e mazziati. Così, abbiamo rinunciato. Pazienza. Ce la faremo a vivere anche senza quei circa cinquemila euro, per fortuna. Ma un po’ di rabbia ci è rimasta. Anche perché, se invece di una forma di "mammite" la bimba avesse patito una forma di "papite" (che in un secondo momento, per fortuna, è apparsa…), la "maternità" l’avrei chiesta io e senza alcuna fatica l’avrei ottenuta… Che dire? Così è l’Italia. Certo, almeno una riflessione questa storia la meriterebbe. Anche perché mi risulta che di vicende come la nostra ce ne siano parecchie, che interessano altre persone alle prese con enti previdenziali che non hanno adeguato i loro regolamenti. Ma il rispetto della legge non dovrebbe valere per tutti?
Bruno Andolfatto
 
 
Non c’è dubbio, caro Andolfatto. La legge deve valere per tutti. E non sono accettabili discriminazioni, né verso i piccoli adottati, né nei confronti dei loro genitori adottivi. Francamente, poi, sono davvero meravigliato dall’atteggiamento dell’Enpap. Forse, è proprio il caso che il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, che è tenuto a esercitare la vigilanza sugli enti previdenziali, apra gli occhi e intervenga. Anzi, senza alcun forse.
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