Addio a un maestro e protagonista della «diplomazia dell'amicizia»
venerdì 30 agosto 2019

Achille Silvestrini, aveva una personalità ricca di aspetti tanto diversi che all’apparenza sembravano non potersi fondere ma che lo rendevano speciale e prezioso, per chi lo conosceva e gli voleva bene. Una vita trascorsa ai vertici della diplomazia vaticana novecentesca, frequentando personalità apicali della politica italiana e internazionale, il cardinale Silvestrini, don Achille per i suoi ragazzi di Villa Nazareth – il collegio universitario che aveva 'ereditato' dal cardinale Domenico Tardini – e per i suoi tanti amici, era un uomo profondo, semplice e diretto, capace di entrare in sintonia con i giovani verso i quali sentiva una particolare vocazione alla formazione. Nel senso migliore e non élitario, volto sempre a sollecitare una responsabilità verso il proprio impegno professionale, le scelte personali, gli altri. Aveva del resto una predisposizione, un vero e proprio talento per le relazioni umane, quelle con le persone semplici o quelle che incontrava nelle interlocuzioni diplomatiche di altissimo livello.

Alla sua origine romagnola, era nato nella cittadina di Brisighella, teneva come a una sorta di identità antropologica che scaldava gli ambienti algidi della vita curiale e quelli formali della diplomazia. Era questa che lo portava a ricercare il contatto con i suoi studenti come a vedere sempre la singola persona dietro il rapporto diplomatico. In una sorta di 'familiarità' che diceva di avere ereditato dalle sue radici: «Tutti quelli che mi cercheranno mi dovranno sempre potere trovare. Come nel mio paese dove si giocava a carte con i repubblicani e i comunisti».

Vocazione alla diplomazia e alla formazione dei giovani, due mondi che sembrano tanto distanti, ma che si sono fusi nella vita di don Achille anche grazie alla forte influenza di Domenico Tardini, dal quale aveva ereditato anche la visione ottimistica dei rapporti umani e del quale ripeteva sovente la frase: «Le carte sullo scrittoio sono anime». Fiorisce da qui quella 'diplomazia dell’amicizia' e della relazionalità che è la migliore caratteristica della diplomazia vaticana novecentesca: la diplomazia delle persone concrete. Una diplomazia paziente, che sa aspettare, che sa cogliere le situazioni e fiancheggiarle e percorrerle, come gli aveva insegnato l’altro suo grande maestro Agostino Casaroli. Più di una volta ho sentito don Achille dire a proposito: «La pazienza dei tempi lunghi, della crescita che viene, che poi si sposa alle persone e alla storia, ai piccoli fatti della vita e ai grandi fatti, come quando Casaroli diceva 'Le possibilità che diventano necessità'. Si fa tutto quello che si può perché, quando le cose sono possibili, allora sono anche necessarie».

Di Casaroli diventa il principale collaboratore, lavora alla strategia dell’Ostpolitik vaticana, osteggiata da quanti pensavano che avrebbe finito con il legittimare il comunismo e che invece produsse il suo frutto più maturo con il Trattato di Helsinki, il 1 agosto 1975, che sanciva «il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» tra cui «in particolare la libertà di religione» che «pur nella diversità dei sistemi» creava una «profonda base comune». I Paesi dell’Est firmarono queste richieste e questi riconoscimenti, convinti fossero un contentino, non immaginando quanto avrebbero eroso e minato dall’interno i loro sistemi totalitari. Diritti umani, pacificazione e giustizia sociale erano le tre strade maestre del Trattato che non avrebbero solo superato la 'guerra fredda' ma anche ridisegnato un compito più alto all’Europa delle nazioni.

Achille Silvestrini fu un testimone attento e appassionato, un protagonista di questi eventi, grande cultore della storia otto-novecentesca (sarebbe voluto diventare un professore di Storia se non avesse fatto il diplomatico per tutta la vita).

Un uomo buono e di fede semplice e profonda, mai cerebrale, mai intellettualistica, dolce e mai giudicante: le uniche insofferenze che gli ho sentito esprimere con forza erano verso coloro che chiamava i voltagabbana nella vita pubblica laica e nella Chiesa.

Ha sempre abitato dentro il Vaticano, simbolicamente addirittura a dieci metri dal Cupolone, nessuno come lui è stato un grande conoscitore della Curia, pur non essendo affatto curiale. Non lo era per indole, per convinzione e per la sua curiosità del mondo esterno, per quel suo stare in partibus infidelium nelle sue tantissime amicizie laiche come quella, tra le altre, con Arturo Carlo Jemolo o Federico Fellini.

La sera del 13 marzo 2013 appena Jorge Mario Bergoglio, il nostro nuovo papa di nome Francesco, aveva augurato con tanta dolcezza la buona sera dal balcone di San Pietro telefonai immediatamente a don Achille per chiedergli se fosse contento di questo esito del Conclave, «Moltissimo, sono contentissimo – mi rispose –: è un uomo di Dio».

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