venerdì 30 agosto 2019
A colloquio col porporato che fu suo segretario alla Segnatura Apostolica «Tesseva relazioni anche elevate. Ma per il bene della Chiesa»
Edoardo Menichelli (Ansa)

Edoardo Menichelli (Ansa)

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Lo chiama affettuosamente «il mio padre Achille ». E per disegnarne il ritratto non ha bisogno che di poche essenziali parole. «Il cardinale Silvestrini è stato un uomo che ha amato e servito la Chiesa con grande passione, con grande spirito di libertà, con un amore profondo a Cristo e al Vangelo». A parlare così è un altro porporato, Edoardo Menichelli, arcivescovo emerito di Ancona-Osimo, che del grande ecclesiastico deceduto ieri è stato segretario per cinque anni, quando Silvestrini era prefetto della Segnatura Apostolica.

Che ricordo ne ha?

Per me conoscerlo e lavorare al suo fianco è stato un grande dono. Totalmente inatteso. Alla sua scuola ho imparato tanto. Ad esempio, quando venni nominato vescovo, mi disse una frase che mi ha accompagnato sempre nella mia vita: “Quando parlerai con le persone, ricordati di non chiedere mai la carta d’identità, ogni persona è un dono di Dio, parla con libertà e con serenità”. Poi abbracciandomi aggiunse: “L’autorità, che è servizio, spesso è molto sola. Se ami la Chiesa, sarai difeso e custodito dalla Chiesa”. Questi per me restano due testamenti che custodisco vivi nel cuore.

Le ha mai parlato della stagione dell’Ostpolitik o delle trattative che portarono alla revisione del Concordato?

Non era un tipo di molte parole. Certo alcune cose me le ha dette, e mi permetta di lasciarle nell’archivio della mia memoria. Ma di quegli argomenti parlava sempre con passione. Il cardinale aveva un capacità assoluta di intessere il dialogo davvero con tutti, anche con i cosiddetti laici. Un dialogo fatto di grande rispetto. E alla fine ti accorgevi che la sua era una tessitura al centro della quale c’era il bene della Chiesa, ma anche dello Stato.

È nota la sua amicizia con Andreotti. E con gli altri grandi della politica del suo tempo?

Ricordo un incontro con un’alta personalità dello Stato italiano, di estrazione laica. Ne nacque per ambedue una crescita di amicizia e di corresponsabilità. Cose che sono sempre necessarie laddove bisogna tessere un rapporto in cui nessuno comanda ma tutti sono al servizio. Ma al di là delle sue amicizie personali, aveva sempre di mira che l’incontro con le persone fosse utile per tutti, che desse vita a un rapporto buono e fecondo per ognuno degli interlocutori. Anche da prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, ebbe di mira solo il riuscire a dialogare per costruire. E proprio in quell’incarico, in cui dovette affrontare i problemi del “dopo-Muro”, credo sia emersa tutta la sua grandezza spirituale e umana.

Anche la sua dedizione a Villa Nazareth nasceva da questa spiritualità del dialogo?

Certamente. Ho potuto constatare di persona il suo rapporto con i ragazzi. Di ognuno ricordava il nome e conosceva la storia. Andava nelle famiglie sia quando c’era un momento di gioia, sia quando erano in sofferenza. Accettava di celebrare i Sacramenti anche sobbarcandosi trasferte di 500 chilometri e vedevi che faceva tutto con gioia e con grande amore pastorale.

Viene da pensare al cardinale Casaroli, suo maestro, che andava a visitare il carcere minorile di Casal del Marmo.

È il grande dono di Dio che le persone aperte e disponibili sono capaci di cogliere. L’intreccio tra la partecipazione al governo della Chiesa e la capacità di dialogo con i poveri, con i semplici. Quante persone il cardinale Silvestrini ha aiutato umanamente, spiritualmente ed economicamente. Posso dire che per lui l’incontro con gli altri era una celebrazione liturgica, perché sempre vi trasfondeva parole di salvezza, di misericordia, di dialogo profondo. E questa è anche l’eredità più bella che ci lascia.

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