lunedì 16 febbraio 2015
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È fissato nella Scrittura, fin dagli albori del cristianesimo, l’inno alla carità di san Paolo. Ma papa Francesco ha auspicato ieri che il mondo del terzo millennio lo possa leggere prima di tutto nella vita dei cardinali. Vecchi e nuovi. E naturalmente anche nella sua, come ha detto in un passaggio dell’omelia del Concistoro in cui ha consegnato 19 berrette cardinalizie ad altrettanti neoporporati dei cinque continenti (il ventesimo della lista, il colombiano Pimiento Rodriguez, non è potuto venire a Roma per ragioni di età avanzata). «Ci farà bene lasciarci guidare, io per primo e voi con me, dalle parole ispirate dall’Apostolo», ha sottolineato il Pontefice, e nello sviluppo del suo discorso ha spiegato che cosa significa «lasciarsi guidare» dalla carità.Magnanimità e benevolenza. Assenza di invidia, vanità e orgoglio. Rispetto e disinteresse di sé e dei propri vantaggi. Rinuncia all’ira e oblìo del male ricevuto. Avversità per l’ingiustizia e gioioso amore della verità. E, infine, capacità di perdonare sempre, di dare continuamente fiducia, di sperare senza limiti e di sopportare ogni situazione, anche la più sfavorevole. Così, attraverso le sue parole, il Papa ha in un certo senso consegnato ai nuovi cardinali le loro autentiche "vesti" color porpora, i panni da indossare 24 ore su 24 come distintivo di riconoscibilità, anche perché l’abito della carità è forse l’unico che gli uomini e le donne del nostro tempo sono in grado di apprezzare a qualsiasi latitudine. L’abito che – per citare il beato Paolo VI tanto caro a Francesco – contraddistingue i veri testimoni e non solo i generici maestri.Quanto è lontano il tempo in cui l’immaginario collettivo (alimentato anche da qualche comportamento non proprio evangelico) pensava ai cardinali come a qualcosa di molto simile ai principi delle corti mondane. La Chiesa del dopo Concilio si è messa in cammino per ripulire anche questo ruolo dalle incrostazioni dei secoli. E Francesco, che dalla cortigianeria ha già messo in guardia nel Concistoro del febbraio 2014 («il cardinale entra nella Chiesa di Roma, non in una corte. Evitiamo tutti e aiutiamoci a vicenda a evitare abitudini e comportamenti di corte: intrighi, chiacchiere, cordate, favoritismi, preferenze»), ieri ha come completato il discorso. Dignità, certo, quella cardinalizia, ma non onorifica. Cioè né orgogliosamente chiusa nella sua vanità, né tanto meno ornamentale. Al contrario, ha ricordato il Papa, essa designa «un perno, un punto di appoggio e di movimento essenziale per la vita della comunità». Un cardine, dunque, donde la qualifica che ciascuno dei nuovi porporati d’ora in poi vedrà associato al suo nome e cognome. Una qualifica che però, ha in pratica sottolineato il Pontefice, riceve senso e significato solo se è accompagnata dall’abito dell’amore a 360 gradi. Ecco, si potrebbe dire che ieri Francesco ha chiesto ai cardinali vecchi e nuovi di essere degli "Inni alla carità viventi" in un mondo che ne ha drammaticamente bisogno. Autentici cardinali saranno dunque uomini capaci di «amare senza confini», di «volere il bene sempre e per tutti», di rifuggire dall’invidia e dall’orgoglio, di non essere «auto-centrati» e quindi di rispettare gli altri, di «non reagire impulsivamente e dire e fare cose sbagliate», di non covare rancore, di non godere dell’ingiustizia e di rallegrarsi della verità. In definitiva, capaci di infondere sempre speranza e di diventare «docili allo Spirito», in ogni situazione. Anche quella più estrema, perché se è vero che il Papa, nell’omelia, non ha fatto esplicito cenno all’impegno dei cardinali di spingere la loro fedeltà fino all’effusione del sangue, essere "Inni alla carità viventi" comporta il darsi completamente, senza riserve, e – se necessario – fino al sacrificio estremo. Proprio sul modello di Gesù che è, egli per primo, «carità incarnata».
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