Immigrazione uguale crescita
sabato 10 aprile 2021

L’immigrazione nelle società sviluppate suscita reazioni contrastanti: anche quando, magari a denti stretti, se ne riconosce l’utilità economica, molti faticano ad accettarla dal punto di vista sociale e culturale. Gli immigrati si trovano nella scomoda posizione di 'utili invasori': possono essere desiderati, ma più difficilmente risultano benvenuti. Proprio per questo è importante domandarsi se, dove e quanto abbiamo bisogno di immigrati, ed eventualmente di quali immigrati. Una risposta viene da un recente studio dell’Istituto Cattaneo di Bologna, a firma di Asher Colombo e Gianpiero Dalla Zuanna. L’analisi prima di tutto ribadisce un fatto noto a chi si accosta al tema con un minimo di obiettività: dalla crisi del 2008 i flussi migratori verso l’Italia hanno perso vigore, fino a toccare nel 2020 il livello minimo degli ultimi decenni, con un saldo positivo di appena 80mila unità, nascite comprese.

Nel 2007 il saldo aveva raggiunto il picco di 500mila unità. La dinamica degli ingressi ha seguito lo sviluppo economico dei territori: negli ultimi trent’anni gli arrivi dall’estero hanno largamente sostituito l’immigrazione interna nelle regioni centro-settentrionali, fornendo un contributo decisivo alla crescita del bacino di lavoratori manuali a disposizione di imprese e famiglie. In queste aree, l’azione concomitante del declino demografico e dell’aumento dei livelli d’istruzione tra i giovani ha prodotto un buco nella disponibilità di manodopera disposta a sobbarcarsi i lavori delle 'cinque P': precari, pesanti, pericolosi, poco pagati, penalizzati socialmente. Può non piacere, ma il mercato del lavoro italiano ne propone ancora parecchi, con un sostanzioso apporto delle famiglie alle prese con la difficoltà di conciliare compiti di cura e impegni di lavoro extradomestici. Gli immigrati dall’estero hanno raccolto tale richiesta, pur essendo non di rado più istruiti del livello richiesto dai lavori svolti.

L’Istituto Cattaneo ricorda che già oggi per ogni 100 lavoratori in età di pensionamento, soltanto 76 (giovani tra i 20 e 24 anni) si candidano a entrare nel mondo del lavoro. Al Centro-Nord per ogni tre lavoratori maschi non diplomati che vanno in pensione si registra un solo ingresso. Proiettando l’analisi al 2036, nelle regioni centro-settentrionali per ogni nuovo ingresso andranno in pensione oltre sei lavoratori a bassa qualifica, per effetto del massiccio deflusso dei figli del baby-boom. Per la prima volta inoltre un insufficiente ricambio della popolazione lavorativa investirà anche i diplomati e i laureati, interessando pure il Mezzogiorno. La prospettiva, assai probabile, di una ripresa della nostra economia nei prossimi anni, comporterà nuovi fabbisogni di manodopera. Se i giovani italiani (comprese le seconde generazioni immigrate) continueranno a competere per le occupazioni migliori, si riapriranno spazi per ingressi dall’estero.

Occorrerà avviare politiche di reclutamento più attive del passato, favorendo l’arrivo di lavoratori preparati, con qualche conoscenza della nostra lingua, e con reti parentali in Italia in grado di appoggiarli, come auspicato dal Cnel. Soprattutto, una conclusione s’impone, per quanto possa apparire scomoda. La 'gelata' dell’immigrazione negli ultimi anni è una conseguenza della stagnazione dell’economia italiana. Lo sviluppo economico invece è associato all’immigrazione: la attrae, la impiega, ne trae beneficio. Già oggi l’immigrazione si concentra nelle regioni più prospere, con più occupazione e più benessere per i nativi. Basti pensare a quello che succede in ambito familiare: per ogni donna adulta di classe media che trova un lavoro stabile fuori casa, vi sono buone probabilità che a casa sua si generi almeno un mezzo posto di lavoro, e che a beneficiarne sia una donna immigrata. Se vogliamo riprendere a crescere, avremo bisogno d’immigrati. Se arriveranno, vorrà dire che avremo ripreso a crescere.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI