mercoledì 23 aprile 2025
Ha 17 anni e da quando è stata ferita da un missile, a Kupiansk, ha subito 15 interventi. La sua storia, come quella di altri bambini e ragazzi che vivono lungo il confine orientale
Vigili del fuoco al lavoro per rimuovere le macerie provocate dall’esplosione di un missile russo che si è abbatto alla periferia di Kharkiv

Vigili del fuoco al lavoro per rimuovere le macerie provocate dall’esplosione di un missile russo che si è abbatto alla periferia di Kharkiv - Reuters

COMMENTA E CONDIVIDI

Il sole di primavera brilla sulla sua pelle chiara e si riflette nel foulard color panna che le avvolge i capelli biondi fino a scendere sul collo e sulla maglietta nera. «A inizio maggio sarò di nuovo in ospedale per la mia quindicesima operazione», dice senza alcun timore Anastasia Samiolova. Com’è d’abitudine per qualsiasi adolescente che ha 17 anni. Quindici interventi chirurgici dal 22 ottobre 2023: il «giorno del missile», come lo chiama lei. Quello piombato sulla camera da letto dove stava dormendo. «Lo so che è un miracolo se sono qui», aggiunge subito. Salvata fra le macerie della sua casa a Kupiansk, la cittadina nell’ultimo lembo della regione di Kharkiv che l’esercito di Mosca sta circondando e radendo al suolo con una quotidiana pioggia di fuoco.

Il volto di Anastasia racconta la vita dei bambini e dei ragazzi lungo i campi di battaglia nell’Ucraina orientale: una vita sfregiata, come i lineamenti della giovane, dai bombardamenti russi, dalla distruzione, dalla paura, dalla sofferenza, dalla solitudine; e, al tempo stesso, capace di dire la parola «speranza» anche quanto tutto ciò che accade intorno grida soltanto disperazione. «Certo che stringo i denti – afferma Anastasia –. E aspetto la fine della guerra». Una mano le trema dopo il raid fra le mura domestiche. E una delle gambe ha una protesi interna che la farà finire per l’ennesima volta sotto i ferri. Non impreca contro il missile e chi lo ha mandato. «L’ordigno non è esploso, altrimenti non ci sarei più. Ma ha sfondato il tetto. La mamma era in giardino; mio fratello nella stanza accanto. Io mi sono trovata ricoperta di calcinacci, mattoni, mobili. Non sono mai svenuta. I militari mi hanno liberato». Soldati che sono i vicini di casa in località come Kupiansk dove passa il fronte.

«È troppo grave», sentivo che ripetevano i medici quando sono arrivata nel nostro ospedale», prosegue la 17enne. In ambulanza è finita a Kharkiv, centoventi chilometri di distanza. «Avevo tre quarti del corpo ferito. Poi la mano, la gamba e l’anca fratturati». Una scheggia le ha perforato lo stomaco. Mostra una bandiera. «Me l’hanno regalata i militari che mi hanno recuperata e che poi sono venuti a trovarmi in ospedale». C’è scritto «pace» e «guarigione». «È ciò che desidero di più. Perché la guerra è terribile». Prima l’occupazione russa per sei mesi all’inizio del conflitto. Poi la casa bombardata. «Ormai Kupiansk è distrutta – chiarisce Anastasia –. Perché tanto male? Me lo domando». Studia per diventare cuoca. «Però sogno di fare l’addestratrice di cani», afferma. E riprende fiato: «Convivo con la paura. Ma soprattutto non ho più amici: sono tutti fuggiti».

Lo sanno bene anche Sasha, Maksym e Ania Yarosh. Fratelli e sorella. Hanno 9, 14 e 18 anni. «Ormai non ricordo neppure quanti eravamo in classe prima dell’invasione. Forse trenta», sussurra Sasha. Vive in uno dei villaggi intorno a Shevchenkove, la cittadina degli evacuati e il primo “porto sicuro” di chi fugge dai battaglioni di Putin che si accaniscono su Kupiansk. Sicuro, si fa per dire: nei giorni che precedono le feste un missile si è abbattuto su una via residenziale facendo un morto e diversi feriti. «Mi sono abituato alle esplosioni. E anche al rumore dei droni», continua Sasha. Ragazzini che hanno la guerra a due passi dalle stanze in cui abitano e che restano lì con i genitori perché la povertà li costringe a non poter andarsene. Non c’è più il sorriso nei loro volti. «Eppure basta un panettone o un libro perché non si sentano prigionieri di un conflitto che va avanti da troppo tempo», sostiene suor Oleksia Pohrsnychna, energica religiosa di San Giuseppe che svolge il suo servizio nella Cattedrale greco-cattolica di Kharkiv. È lei che, con la pettorina della Caritas Ucraina, fa arrivare ai “figli della guerra”, fin nelle zone più a rischio, i regali della Pasqua. E anche la carità di papa Francesco: farmaci e ricostituenti portati sotto le bombe dal cardinale elemosiniere Konrad Krajewski. I tre stanno con la mamma e con nonna Nina Kasimirova di 67 anni. «Il papà è stato arruolato da poco nell’esercito – riferisce l’anziana –. Finora chi aveva tre figli era esentato. Ma mancano soldati. E gli hanno imposto di partire. Non aveva mai lasciato il villaggio, neppure nei mesi di occupazione».

Si fa la fila nel piccolo hub umanitario di Shevchenkove per i pannolini o i biscotti. Donne che con i figli lasciano gli abitati a ridosso della linea di combattimento e si trasferiscono a poche decine di chilometri. «Spesso partono con due buste della spesa dove hanno messo tutto ciò che potevano. Evacuate dalle autorità. E non hanno più nulla per sé e per i bambini», afferma Tatiana Oncirova, responsabile del presidio di aiuti ospitato nel Centro della cultura che sfama e veste i profughi di guerra. E a lei si deve il coro che raduna i piccoli sfollati. «È una goccia di normalità nell’infinito mare di orrore che viviamo ogni giorno. Ed è pur sempre un seme di speranza per provare a immaginare un futuro di pace».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: