mercoledì 11 giugno 2014
Appello ai governi del mondo: porre fine a una «tragedia inaccettabile». Tra 2007 e 2012 circa 30mila persone sono state preda dei trafficanti, 10mila sono morte.
Il grido dei vescovi per l'Eritrea ferita di Giulio Albanese
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Parlano di una tragedia «inaccettabile e incompatibile con il grado di civiltà e di progresso oggi raggiunto». Denunciano la «fuga dei cervelli», il basso livello della qualità della vita, la disgregazione della famiglia. Si chiedono: «Se la coscienza degli autori di questi crimini ha perso ogni sensibilità, come è possibile che il resto del mondo li tolleri?». È lucida e drammatica l’analisi che emerge dalla lettura di «Dov’è tuo fratello?», lettera pastorale diffusa dai vescovi cattolici dell’Eritrea, Paese dal quale proviene la maggior parte dei migranti che arrivano sulle nostre coste dopo viaggi disperati.«Fino a quando questa magmatica fuga umana? – scrivono i vescovi – Perché mai la durezza delle condizioni di vita nelle traversate del deserto e del mare, il peso finanziario che comportano, i rischi per la vita che si corrono, non riescono a convincere i giovani a retrocedere da avventure, meglio dire disavventure, di queste proporzioni?». Secondo l’episcopato eritreo, «l’attrattiva di un livello di vita migliore all’estero ha finito per creare irrealistiche aspettative ed irrealizzabili illusioni».Il recente rapporto «The human trafficking cycle: Sinai and beyond» ha sottolineato che solo tra il 2007 e il 2012 nel Corno d’Africa 25-30mila persone, al 95% eritrei, sono stati coinvolti nel traffico di esseri umani. Circa 5-10mila quelli che non sono sopravvissuti alle violenze, alla prigionia. Molti di coloro che fuggono dall’Eritrea, definita da molti analisti una prigione a cielo aperto, finiscono preda di gruppi di trafficanti. Il totale dei riscatti pagati dai parenti è stimato in oltre 600 milioni di dollari. «Se la coscienza degli autori di questi crimini ha perso ogni sensibilità, come è possibile che il resto del mondo li tolleri? – scrivono i vescovi – Gli Stati che governano i Paesi dei perpetratori e delle vittime del crimine possono davvero dire di avere esaurito tutti i mezzi a loro disposizione per provi rimedio?». Per questo serve «un cambiamento di mentalità, interventi concreti, efficaci ed incisivi. Occorre puntare sulla domanda di mirate strategie legislative e politiche». Inoltre, se la comunità internazionale non ha ancora fatto la propria parte per ridurre le «tragedie del mare», è interesse degli stessi eritrei «assumersi in primis l’iniziativa del proprio riscatto».All’Asmara la leva pluriennale obbligatoria costringe i giovani in centri educativo-militari voluti dall’autoritario presidente Issaias Afeworki. Chi cerca di sottrarsi, prova ad oltrepassare il confine, con esiti incerti. Il dissenso interno non esiste, la stampa privata è abolita dal 2001. E la giustizia è fatta di torture e lavori forzati, di incarcerazioni dettate da motivazioni politiche o religiose, di arresti che quasi mai sfociano in processo.I più fortunati campano grazie alle rimesse dei parenti all’estero. Il più fortunato di tutti è lo Stato, che dalle tasse su quelle rimesse trae linfa vitale per i suoi investimenti in armi (oltre il 20% del Pil). «Se non si creano opportunità di lavoro – scrivono i vescovi –, se ai giovani non viene concessa la possibilità di rendersi autosufficienti, se non si mette fine alla stagnazione dell’agricoltura, del commercio e dell’industria, non si uscirà mai dal circolo vizioso della dipendenza e della povertà». I vescovi sottolineano la «disperata emergenza economica» del Paese. «Come si farà ad uscire da queste situazioni, se non c’è spazio per l’iniziativa privata, per l’intraprendenza e per la creatività? Come si fa a parlare dell’indipendenza e della dignità di una nazione, senza presupporre la dignità e l’indipendenza delle persone?». Domande pressanti a cui è chiamata a rispondere, davanti a centinaia di morti tra i migranti, non solo il governo eritreo ma l’intera comunità internazionale.
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