giovedì 9 aprile 2009
Nello Stato più povero del Paese è in atto un tentativo di azzerare le minoranze che in qualche modo sono di ostacolo al nazionalismo indù, che predica anche la rigida separazione in caste della popolazione. Molti cattolici vivono ancora nelle tendopoli, vittime della violenza e dei tentativi di conversione forzata.
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Miseri villaggi rurali, segnati da una dif­fusa povertà economica, umana e culturale, che ancora vivono la lon­tana attesa dei «tempi moderni», si rifletto­no nel finestrino dell’auto­mobile. Fotogrammi di un vecchio film in bianco e ne­ro, mentre il veicolo che ci trasporta procede sulle pol­verose strade del distretto di Kandhamal, cercando di scansare vacche sacre e gio­vani capretti che vagano in libertà. Casupole tutte uguali e malconce si succedono l’u­na all’altra, avvolte dall’aria appiccicosa dell’umido mat­tino, accanto i loro incerti braceri, in cui è mi­sero anche il fuoco che brucia. Ci vogliono sette ore di viaggio per fare 200 chilometri nel territorio che un giornale indiano ha defini­to «una terra diventata sinonimo dell’odio nel nome di Dio». Sette ore per risalire le sue montagne, le sue foreste, nel cuore dello Sta­to di Orissa. Il più povero in assoluto dei 28 Stati che costituiscono l’Unione in­diana; il più arretrato per scolariz­zazione, assistenza sanitaria e in­dici di benessere. Dove l’88 per cen­to della terra appartiene allo Stato. Qui i bambini con la zappa in spal­la non sanno che cos’è una scuola e molti anziani languono accascia­ti ai margini della società, soltanto una pezza sfrangiata, sporca, get­tata sulla schiena, senza il confor­to di una medicina. Storpi e mala­ti si arrangiano come possono, le donne lavorano nei campi e poi do­vranno occuparsi del cibo per i ma­riti e i figli. Occhi di questo pezzo di continente indiano, terra dei più miseri tra i miseri, ma anche 'la­boratorio' di una pulizia religiosa e di classe, perché i cristiani sono considerati un argine alla costru­zione del pensiero unico, del fana­tismo nazionalista e estremista indù, che divide il mondo in rigide caste e che urla il suo slogan della paura: «Bharat mata ki joy», essere indù per salvare la madre India. Nell’agosto del 2008, in conse­guenza dell’assassinio di un capo radicale politico e religioso indù, Swami Laxmanananda Saraswati, benché un gruppo armato maoista avesse rivendicato l’omicidio, gli induisti at­taccarono la comunità cristiana. A distanza di mesi, vivere da cristiani nell’a­gitata Orissa (34 milioni di abitanti; l’1% quel­li che pregano Gesù Cristo, il 18% risiede nel distretto di Kandhamal) continua a essere pe­ricoloso. «È come stare in una bolla di luce, circondata da una ne­bulosa di incertezza e paura», fa notare un re­ligioso indiano. Sulla strada le tracce, le ferite di quanto acca­duto nei mesi passati restano impresse e ben evidenti. Il convento bruciato, la chiesa cat­tolica distrutta, dove la gente, comunque e no­nostante la paura, tor­na a radunarsi per una preghiera, i centri del­la Caritas locale e della pastorale con le por­te sfondate dai colpi d’accetta e ogni cosa in­cenerita, i computer sfasciati, i libri affumi­cati, le statue del presepe fuse dal forte calo­re, le fotografie dei giorni felici ridotte a sfo­glie di carbone. Impressiona la distruzione delle povere case appartenute ai cristiani e delle chiese co­struite di terra impastata a paglia, che la rab­bia indù ha trasformato in roghi sui quali get­tare madonne decapitate, libri religiosi, ta­bernacoli violati e statue dei santi pestate con così tanta rabbia da essere ridotte in bricio­le. Come il marchio in rilievo del dolore che ha segnato un corpo senza sollievo, improvvi­sate tendopoli raccolgono decine di famiglie di sfollati, perché nessuno li vuole e nessun altro li aiuta. Sorgono accanto a ciò che resta di un villaggio o di un pugno di casupole di contadini cristiani o al riparo di una missio­ne sopravvissuta alla rabbia distruttrice indù, ma anche tra le mura di un lebbrosario ge­stito dalle suore missionarie della carità di madre Teresa di Calcutta, «Non piangere. Dio ti aiuta», dice il nostro ac­compagnatore rivolgendosi a un padre di fa­miglia in lacrime nel raccontare la sua storia.L’uomo, balbettando, risponde: «Quando po­trò tornare alla mia casa? Non è rimasto più niente. Mi hanno bruciato la casa. Quella è la terra dove sono nato. Dove vado? Chi mi aiu­terà? ». Nella tendopoli, il calore fonde gli odori men­tre le persone si radunano. Sono facce che hanno lo stesso colore della terra. Tutti dico­no di quando il grido degli indù ha rotto il si­lenzio della notte e le torce hanno illumina­to i villaggi per poi ardere e uccidere. Rac­contano della paura che ancora portano ne­gli occhi. «Siamo fuggiti nella foresta. Senza niente da mangiare per giorni», spiegano. Per­si nel silenzio di una vegetazione dove stri­sciano i cobra. Senza avere notizie dei propri cari, dei vicini di casa. Con le mani a tappar­si le orecchie per non sentire le grida di do­lore di chi era picchiato a sangue, o della don­na costretta a subire una brutale violenza. Ma anche l’ultimo gemito di chi veniva ucciso. Dalla foresta vedevano bruciare la loro chie­sa e sentivano l’ultima oltraggiosa scampa­nacciata. E davanti alla minaccia di essere ucciso c’era chi non riusciva a dire no: con­versione forzata all’induismo in cambio del­la propria vita. «Strappare la Bibbia e poi bru­ciarla », ricorda l’uomo che piange, mentre altre voci che si fanno forza offrono adesso storie di famiglie miste: un cristiano sposato a una indù, rincorsi dalle minacce selvagge al loro figlio maschio da bruciare vivo. Ma an­cora più atroce è l’ascoltare la storia di chi dopo essere stato bastonato fin quasi alla morte «è stato sepolto vivo, mentre attorno gli assalitori gli gridavano: 'Adesso aspetta il tuo Gesù che ti verrà a salvare'».La vicenda. Le violenze contro i cristiani in Orissa, a partire dal 24 agosto 2008, hanno provocato la fuga di 10.000 famiglie, pari a circa 54.000 persone. Sono un’ottantina i morti accertati, secondo le fonti della Caritas diocesana di Bhubaneswar, capitale dello Stato di Orissa; secondo il governo locale, le vittime sono invece poco più di quaranta. Oltre 5mila le case devastate o bruciate; 392 i villaggi coinvolti nelle violenze. Mentre 149 sono le chiese cattoliche e protestanti danneggiate o completamente distrutte. Una quarantina sono le scuole gestite dai cristiani e i centri destinati alla pastorale e alla catechesi che hanno riportato danni.
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