venerdì 22 agosto 2014
Gli uomini della minoranza si fingono jihadisti per «comperarle». E i superstiti del genocidio preparano una causa alla Corte dell'Aja.
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«Quindicimila dinari, circa 12 dollari». Tanto vale una donna yazida al mercato di Mosul. «Omar, un mio caro amico musulmano, ha finto di essere uno di loro: ha comprato tre ragazze per farle scappare. Adesso sono qui a Erbil, protette dai servizi segreti», spiega Hussam Salem, attivista della Yazidi solidarity and fraternity league. «Genocidio» pare una parola troppo pesante sulle labbra di questo ragazzo più serio dei suoi 27 anni. «Non è la prima volta nella storia per noi yazidi», ti dice lui con molta calma e dignità. Con la sua “League”, sta catalogando foto e testimonianze. Primi dettagli, prime prove, di quella che tutti i superstiti sperano diventi una causa alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità. Difficile avere adesso una stima del numero delle vittime: famiglie scappate a Duhok a piedi, altre messe in salvo con il ponte aereo, altre che hanno varcato il confine. Primi “reperti”, di una storia da ricostruire. Il primo racconto del genocidio è un tragico ritornello: «Ad Ardan, nelle montagne del Sinjar, sono stati uccisi 415 uomini e bambini: fucilati o sgozzati. Tutte le donne sono all’aeroporto di Tell Afar», la cittadina in mano all’Isis. Tutte rapite, come le tre ragazze di Mosul. Ferocia, che si può trasformare in faida intercomunitaria: quando gli uomini dell’Isis sono arrivati a Tell Afar, metà sciita e metà sunnita, gli sciiti sono scappati sulle montagne. «Noi yazidi li abbiamo accolti, un gesto di solidarietà fra popolazioni perseguitate ». Apertosi un corridoio, gli sciiti sono scappati a Sud e «alcuni gruppi sunniti, per vendicare di aver ospitato gli sciiti, hanno assalito il villaggio degli yazidi. Sono stati loro a portare quelle donne all’aeroporto di Tell Afar», spiega Hussam. Faide etnicoreligiose di bande assassine, mentre la gran parte della popolazione ha aperto le porte di casa ai profughi: «A Bashika abbiamo accolto quelli che fuggivano da Mosul. Nessuna distinzione etnica o religiosa». Anche la fuga sui monti del Sinjar si è tramutata in una trappola diabolica. «Bambini e anziani abbandonati e morti di fame. Un mio amico – dice mostrando la foto di una ragazzina Down di 16 anni – ha abbandonato la figlia sul ciglio della strada. Handicappata, non riusciva più a camminare. Per fortuna è sopravvissuta a due giorni di digiuno. Adesso è in salvo in un campo profughi a Duhok». L’elenco potrebbe continuare, una lista che Hassan aggiorna ogni sera mentre di giorno, assieme al collecting documents, distribuisce cibo e coperte con “Un ponte per”, l’ong italiana presente in Iraq da oltre 20 anni. Giustizia, per la Lega degli yazidi, in questo momento significa «protezione internazionale: la chiediamo alle Nazioni Unite e anche al Vaticano». Protezione e sicurezza, dove le forze presenti sul terreno, nelle scorse settimane, hanno fallito. «Lo chiediamo anche alla Santa Sede. Prima il Papa chiedeva di proteggere i cristiani, adesso chiede di proteggere le minoranze. Parole per noi importantissime». A due passi dall’ufficio di “Un ponte per”, nel parco davanti alla chiesa siriaco-cattolica di Mar Shimuni, si aspetta l’arrivo di un carico di materassini dell’Unhcr. Hussam saluta gentile e va ad aggiornare il suo archivio: il tempo farà giustizia.
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