sabato 13 maggio 2023
Ogni anno, 21,5 milioni di abitanti del Sud del mondo sono costretti a spostarsi per il riscaldamento globale. Cardoletti, rappresentante Acnur in Italia e Santa Sede: «La responsabilità è nostra»
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Ogni anno degli scorsi dieci, in media, 21,5 milioni di donne e uomini hanno dovuto abbandonare le proprie case e i campi in agonia in cerca di sopravvivenza. Nel 2021, ultima cifra disponibile, hanno toccato il record di 23,7 milioni. Le loro fonti di sussistenza – perloppiù legate a agricoltura, allevamento e pesca tradizionali – erano state bruciate dal riscaldamento globale che si accanisce con particolare violenza sulle parti più povere del pianeta. Quelle con meno risorse per mitigare le conseguenze del clima. L’unica possibilità di sfuggire alla fame per tantissimi abitanti del Sud del mondo è spostarsi.

La gran parte resta all’interno dei confini nazionali o si trasferisce nei Paesi vicini, spesso ugualmente vulnerabili e, pertanto, senza possibilità di assisterli. Appena un venti per cento prosegue verso Nord, in primis Stati Uniti ed Europa. Gli esperti li definiscono profughi ambientali, danni collaterali in carne ed ossa della crisi ecologica in atto. La categoria, però, è vaga e, per questo, viene assimilata spesso alla migrazione economica. Il più delle volte, nemmeno i diretti interessati sono consapevoli di essere sfollati climatici per cui lo spostamento non è un’opportunità per migliorare le proprie condizioni ma l’unica chance di rimanere in vita.

«Il fatto è che i movimenti di popolazione sull’interoi Pianeta rispondono a una molteplicità di fattori interconnessi. Le persone spesso considerano la causa immediata e non la radice profonda», spiega Chiara Cardoletti, rappresentante per l’Italia, la Santa Sede e San Marino dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur-Unhcr). Proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica sul dramma delle persone sfollate nel contesto di disastri e crisi climatica, l’organizzazione ha lanciato la campagna «La crisi climatica è un’emergenza umanitaria».

Eppure chi parte a causa del clima il più delle volte ha difficoltà a trovare qualche forma di protezione legale nei Paesi di accoglienza. Occorre un adeguamento della legislazione internazionale?

In realtà, le regole ci sono. Ciò che diciamo agli Stati è di interpretarle alla luce del contesto attuale. Le norme sull’asilo sono in grado di coprire le necessità di tutela dei profughi ambientali, soprattutto se opportunamente integrate con gli strumenti regolativi regionali, come la Convenzione di Cartagena per l’America Latina o quella di Addis Abeba per l’Africa o le direttive complementari europee. Stiamo, inoltre, rafforzando le linee-guida affinché i Paesi possano rispondere sempre meglio agli sfollamenti ambientali.

Perché il clima è un’emergenza umanitaria?

Come scrive papa Francesco nella “Laudato si’”: crisi ambientale e crisi sociale sono le due facce di un’unica enorme emergenza. I fenomeni estremi causati dal cambiamento climatico sono uno dei più potenti motori dell’esodo contemporaneo. Non a caso, il 70 per cento degli sfollati viene da Paesi particolarmente vulnerabili di fronte al riscaldamento globale. La crisi ambientale, inoltre, è un moltiplicatore di altri fattori di rischio, fra cui l’insicurezza alimentare poiché riduce la produzione di cibo. L’esempio del Corno d’Africa è emblematico: la regione vive la più terribile siccità degli ultimi quattro decenni e 23 milioni di persone sono alla fame in Etiopia, Kenya e Somalia. Le conseguenze del riscaldamento globale – dall’aumento dei terreni non più coltivabili al prosciugarsi dei fiumi – acuisce le tensioni, favorendo i conflitti. È quel che sta accadendo, ad esempio, nel Sahel. Guerre e cambiamento climatico si intrecciano incrementando le sofferenze delle persone. Guardiamo il Ciad, da tempo in crisi idrica. Ora il Paese è meta di decine di migliaia di profughi dai combattimenti in Sudan di cui non è in condizioni di farsi carico. La situazione è così grave che nei campi profughi abbiamo dovuto abbassare la razione giornaliera di acqua da venti a nove litri.

È l’Africa la più colpita dalla crisi climatica?

Nel Continente troviamo alcune situazioni estreme come il Sahel, il Corno d’Africa, il Congo, il Darfur. Sono ugualmente allarmanti le condizioni dell’Afghanistan, del Pakistan o dello Yemen. L’elenco è lungo, purtroppo. E nel prossimo futuro, a meno di un’azione forte per contenere il riscaldamento globale, gli spostamenti di popolazione aumenteranno.

Che fare di fronte a questa realtà? Qualcuno costruisce di costruire nuovi muri per contenere il flusso....

Dobbiamo, innanzitutto, affrontare il nodo del cambiamento climatico e combatterne le cause, con un drastico taglio delle emissioni. La transizione ecologica non è più procrastinabile. Se non ci decidiamo a mutare direzione, non possiamo sorprenderci che le persone siano costrette a migrare. Più che di aiutarli a casa loro si tratta di non bruciare casa loro. I Paesi poveri, oltretutto, sono i meno responsabili della crisi ambientale, determinata dalle grandi potenze industriali del passato e del presente. Eppure sono quanti pagano il prezzo più alto in termini di conseguenze dirette e di accoglienza di profughi dalle nazioni vicine. Non possiamo continuare a lavarcene le mani. Da una parte dobbiamo, dunque, agire sulle cause. E dall’altra farci carico delle conseguenze, tutti insieme. Perché questa emergenza riguarda tutti.

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