sabato 23 dicembre 2023
Le retoriche contrapposte spingono sia Putin che Zelensky a dire «stiamo vincendo» e che «si combatterà fino alla vittoria». Gli effetti della crisi di Gaza sull'attenzione al conflitto in Ucraina.
Immagini di devastazioni a Kiev

Immagini di devastazioni a Kiev - Ansa

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La loro retorica non è cambiata. Appena martedì, durante la conferenza stampa, alla domanda se l’Ucraina stesse cominciando a perdere la guerra, il presidente Volodymir Zelensky ha replicato con un secco «no» E ha ripetuto il leitmotiv del «combatteremo fino alla vittoria» e del «negozieremo alle nostre condizioni». Lo stesso ha ribadito ieri Vladimir Putin. A mutare, però, e in modo drastico, è stata la congiuntura internazionale. L’offensiva su Gaza catalizza la ribalta mediatica e – cosa ancora più importante – le risorse degli alleati. Il Congresso Usa a maggioranza repubblicana ha appena bloccato un pacchetto di aiuti da 64 miliardi di dollari. Per ammissione della stessa Casa Bianca, senza il suo via libera, presidente e dipartimento di Stato hanno ben pochi margini di manovra. La fiera opposizione dell’Ungheria di Viktor Orbán ha fatto rinviare a gennaio la discussione sull’invio di altri 50 miliardi di euro dall’Ue. Al fronte, ormai, non scarseggiano solo le munizioni. Anche il mezzo milione di truppe schierate è esausto dopo ventidue mesi di guerra. Kiev ha in programma di mobilitare un numero record di militari – tra 450mila e 500mila – per sostituirli. Una decisione impopolare, specie ora che gli ucraini cominciano a manifestare segni di stanchezza per il protrarsi delle operazioni belliche. Il consenso di Zelensky è calato di ventidue punti nell’ultimo anno, in base al recente sondaggio del Kiev international institute of sociology, passando dall’84 per cento del dicembre scorso all’attuale 62 per cento. Le sue frizioni con lo stato maggiore – in particolare con il generale Valery Zaluzhny, le cui ambizioni presidenziali risultano palesi – non sono più un mistero.
Se Kiev è in difficoltà, però, Mosca non se la passa molto meglio. Lo stesso Putin ha detto che le forze armate hanno problemi con i sistemi di difesa aerei e le comunicazioni e ha sottolineato la necessità di incrementare la produzione di droni. Né aggressore né aggredito hanno raccolto risultati significativi negli ultimi mesi. Entrambi fanno già troppa fatica a conservare le rispettive posizioni.
Al tempo immobile delle trincee, corrisponde oltretutto quello frenetico della politica. A marzo, lo zar dovrà essere riconfermato al Cremlino. Una sconfitta non è in programma ma, durante le elezioni, il malcontento serpeggiante per “un’operazione speciale” sfuggita evidentemente di mano, potrebbe venire a galla. Una qualche forma di soluzione della crisi ucraina, al contrario, infliggerebbe un duro colpo al dissenso, già annichilito dalla repressione. Su Zelensky, nel mentre, aleggia lo spettro del voto di novembre negli Usa e la possibilità di trovarsi il “putiniano” Donald Trump al comando. Entrambi hanno l’urgenza di fare in fretta. Sul campo di battaglia, tuttavia, nessuno appare in condizioni di prevalere sull’altro nel breve termine. Resta, dunque, il “piano B”, ancora innominabile e innominato dai contendenti: la trattativa. L’inverno del comune scontento potrebbe schiudere a uno stralcio di primavera, aprendo una breccia nel muro contro muro tra Mosca e Kiev? Alcuni analisti lo ritengono plausibile. Molto dipenderà anche dalla capacità della diplomazia internazionale di interpretare i segnali di disponibilità e farli maturare, immaginando strade alternative alla polarizzazione imperante. A volte da motivi sbagliati – il ricatto repubblicano Usa sullo sblocco dei fondi in cambio di un ulteriore indurimento delle politiche migratorie e il no di Orbán per simpatie putiniane – possono forse non discendere scelte giuste ma almeno spazi di opportunità da abitare.
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