sabato 10 dicembre 2022
Il presidente Zelenski per descrivere il confronto più sanguinoso dei primi nove mesi di guerra afferma: «È qui che stiamo affrontando gli scontri più feroci di sempre»
Vita in trincea. Un soldato ucraino sul fronte di Bakhmut

Vita in trincea. Un soldato ucraino sul fronte di Bakhmut - Reuters

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Non usa giri di parole, il presidente Zelenski per descrivere la battaglia più sanguinosa dei primi nove mesi di guerra: «È a Bakhmut, nel Donetsk, che stiamo affrontando gli scontri più feroci di sempre». Tutto nell’area sa di inferno dantesco, a partire dal clima. Da settimane, piove e nevica. Senza tregua. Il campo di battaglia è un pantano malfermo.

Le foto che rimbalzano dal fronte sono terrificanti, fra trincee insanguinate e crateri scavati dalle bombe. I fanti annaspano. Il fango li inghiotte fino alle ginocchia. È una tragedia in terra, ma russi e ucraini continuano a scannarsi per il nulla: avanzano di pochi metri per ripiegare subito dopo.

Perdono un’infinità di uomini. Ogni giorno va peggio. La vita è quasi impossibile. I mortai tuonano sinistri: infieriscono con rumore sordo sui corpi esausti. Riemerge come un fiume carsico il “piede di trincea” che devastava gli arti inferiori: un killer spietato, che causò migliaia di morti nel 1914-18.

Perché tutto questo? Che cosa spinge i russi a consumare tante risorse per conquistare una città fantasma, rifugio un tempo di 70mila persone e oggi distesa di rovine e macerie?

Purtroppo Bakhmut ha una sorte infausta, decisa per essa dalla geo-strategia: è un perno da cui muovono strade e ferrovie, polmone vitale di ogni logistica di guerra. Vi transitano le autostrade per Donetsk e per Lugansk e le vie che riconducono alla frontiera russa. Se cadesse, Sloviansk, Kramatorsk e Chasiv Yar sarebbero meno protette.

I russi potrebbero puntarvi in primavera, dopo aver ultimato l’addestramento dei migliori riservisti. Conquistarle, consegnerebbe al Cremlino le chiavi del Donbass, garantendo un continuum territoriale con la Crimea, obiettivo irrinunciabile della Russia neo-imperialista. Ecco perché Putin si ostina a sacrificare i suoi.

Si è trincerato dietro una sorta di “linea Surovikin”, un misto di difesa a oltranza e di attacchi locali, come fece il generale tedesco Hinderburg nel 1917, protetto dalla sua linea fortificata. La tattica è la stessa: temporeggiare per formare nuovi battaglioni e riprendere in seguito l’iniziativa, vero spartiacque fra la vittoria e la sconfitta.

Bakmhut vale molto più del mero computo bellico. Vi si combattono molte battaglie simultanee, di storia e di simboli: la città è una creatura russa, voluta dallo zar Ivan il Terribile più di 450 anni fa. Fu il suo primo avamposto per muovere contro i tatari di Crimea.

Tutto torna nella memoria di Putin. Bakhmut gli servirebbe come l’aria. Dopo le disfatte di Kharkiv e di Kherson, ha bisogno di una vittoria per rilanciare i suoi e rinverdire i fasti di un’Armata Rossa finora claudicante. Ma che fatica: da quattro mesi, la musica non cambia. I russi bombardano a tappeto, prima di sciamare con decine di fanti, mandati allo sbaraglio.

C’è qualcosa di simile alle nostre tragedie sull’Isonzo. Un modus operandi divoratore di uomini e mezzi. Purtroppo i russi non hanno quadri sottufficiali all’altezza, capaci di innovare. Hanno saputo solo aumentare l’intensità dello sforzo, schierando qui parte delle truppe scelte evacuate da Kherson. Un utile puntello ai mercenari del gruppo Wagner e un freno alle ambizioni eccessive di Eugenij Prighozin, loro proprietario.

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