domenica 22 marzo 2009
Tensioni tra Ankara e i vicini per l’uso del Tigri e dell’Eufrate Il progetto Gap continua a dividere i Paesi del Medio Oriente
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Pistacchi a perdita d’occhio. «Qui prima era tutto sott’ac­qua » , dice Necati, il giovane curdo alla guida dell’auto che sta attraversando questa zona a un centinaio di chilometri da San­liurfa. Qui sorge la diga di Birecik, costruita sull’Eufrate fra il 1985 e il 2000 nell’ambito del controver­so progetto Gap ( Progetto per l’A­natolia Sudorientale). Ora sott’ac­qua ci sono diversi villaggi, come quello di Savashan, che resta indi­menticabile con il suo minareto che sembra spuntare dal nulla, nel bacino creato dallo sbarramento. Più in là, impressionante nella sua imponenza, si erge un’altra diga, quella di Ataturk. Un progetto co- lossale costato più di un miliardo di dollari, una delle dighe più gran­di del mondo, in grado di produr­re – secondo le cifre ufficiali – 8.900 GigaWatt ora all’anno. Ma anche il principale pomo della discordia con i Paesi vicini. Con il Gap infatti la Turchia si im­padronisce di fatto dei rubinetti del Tigri e dell’Eufrate, le due prin­cipali risorse idriche di Siria e Iraq. Una situazione che innervosisce i vicini, che accusano costante­mente Ankara di non rilasciare ab­bastanza acqua, e mette nelle ma­ni della Turchia un immenso po­tere. Un potere non virtuale, ma già concretamente esercitato, proprio in occasione dell’inaugurazione della diga di Ataturk: nel gennaio 1990, la Turchia interruppe il cor­so dell’Eufrate. Ufficialmente, per riempire il lago di fronte allo sbar­ramento; in realtà, si trattava di u­na dimostrazione di quel che sa­rebbe potuto accadere se la Siria a­vesse continuato a fornire sup­porto al Pkk, il gruppo armato se­paratista curdo. Le conseguenze non furono però quelle sperate: poiché anche l’Iraq si ritrovò im­provvisamente a corto d’acqua, si creò un’inedita alleanza fra Bagh­dad e Damasco, fino a quel mo­mento nemici giurati. Fu così che la Turchia fu costretta a fare un passo indietro, e l’Eufrate, che nei piani di Ankara doveva lasciare a secco i vicini per un mese, tornò a scorrere nelle pianure della Meso­potamia con una settimana d’an­ticipo. Il problema però resta. Al Forum mondiale di Istanbul sia il mini­stro dell’ambiente Veysel Eroglu sia il presidente della Repubblica Abdullah Gul hanno insistito sul­la carenza di risorse idriche in Tur­chia, contrariamente a quanto si potrebbe credere. In realtà tutto il Medio Oriente ha sete, tanto che I­sraele compra acqua proprio dal­la Turchia. E che a provocare le guerre delle futuro sarà l’ « oro blu » è una facile profezia, suffragata da quanto dichiarato da più di un lea­der turco fin dalla fine degli anni Ottanta: loro – cioè gli arabi – han­no il petrolio, noi abbiamo l’acqua. In questo braccio di ferro, Ankara, accusata di voler tenere sotto scac­co i Paesi vicini con le dighe, si di­fende con le cifre: i 500 metri cubi al secondo promessi sono sempre stati forniti. Ma i siriani non si la­mentano della quantità, ma della qualità: l’acqua che arriva a casa loro, passando dalle dighe, è stata già usata più volte per irrigare i campi, con un aumento della sa­linità che danneggia i raccolti, mentre, privata del limo, scorre più rapidamente provocando erosio­ni. La questione delle dighe ha poi ri­cadute ambientali, sociali ed eco­nomiche enormi. Al Forum mon­diale se ne è appena accennato, e solo per esaltarne la funzione di sviluppo per le regioni coinvolte. Una funzione su cui molti ormai si pongono domande, soprattutto nei confronti del più contestato dei progetti del Gap, la diga di Ili­su, quella che provocherebbe l’al­lagamento del sito archeologico di Hasankeyf. Diversi investitori stra­nieri hanno già ritirato i finanzia­menti. Ma il governo italiano con­tinua a crederci. E così ha invita­to, per il 21 aprile a Milano, il vi­cepremier turco Nazim Ekrem per una presentazione del progetto Gap alle aziende di casa nostra.
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