martedì 21 dicembre 2010
Parla il fratello di uno dei profughi eritrei prigionieri nel Sinai. Chi doveva aiutarlo a raggiungere Israele l’ha invece tradito come gli altri 250 bloccati nel deserto del Sinai e così la famiglia sta cercando di racimolare gli 8.000 dollari necessari alla sua liberazione: se non li recupererà, l'ostaggio sarà ucciso
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Ha appena pagato tremila dollari in due rate per allungare di qualche giorno la vita a suo fratello, uno dei 250 eritrei nelle mani ormai da un mese dei trafficanti di uomini nel Sinai. L’ultima rata di duemila dollari l’ha versata sabato scorso. La prima è stata pagata il 3 dicembre. Adesso sta disperatamente cercando altri cinquemila dollari per arrivare a quota ottomila, il riscatto fissato per la sua liberazione. H. vive in Svizzera con la sua famiglia, a Berna, ed è un rifugiato politico. Da un mese la sua vita è come spezzata, immersa in un dramma spaventoso. La sua testimonianza aggiunge un altro tassello a questo complesso caso internazionale. Racconta infatti chi e come ha venduto suo fratello e i suoi compagni ai Rashaida del nordest del Sinai. Una vicenda iniziata trenta giorni fa e che per la prima volta toglie il velo all’orrendo traffico di esseri umani che si svolge al confine tra Egitto e Israele. Una storia quasi incredibile, dove si mescolano le vecchie rotte e la violenza brutale degli antichi clan beduini di trafficanti di schiavi alla più sofisticata tecnologia, che consente di seguire il dramma via audio quasi in diretta e viene utilizzata al tempo stesso dai criminali per sollecitare e ricevere i riscatti. «Ho ricevuto la prima telefonata da mio fratello trenta giorni fa – racconta H – sapevo che era partito dalla Libia con un gruppo di connazionali per tentare di raggiungere Israele attraversando l’Egitto. Sapeva che la strada era pericolosa, ma era stato rassicurato dall’organizzatore del viaggio. Mi ha poi detto di essere stato tradito e venduto dal suo passatore a un clan di beduini Rashaida. E che se non venivano pagati ai rapitori ottomila dollari, questi minacciavano di ucciderlo e prelevargli gli organi per venderli al mercato nero».Ma chi è il passatore che lo ha consegnato ai rapitori? «Si fa passare per un etiope – aggiunge H. – ma potrebbe essere un eritreo. I prigionieri sanno che il suo vero nome è Fatawi Mahari, anche se dai profughi si fa chiamare "Wedi Koneriel", che significa figlio del generale. Si tratta di un criminale che mi risulta sia già stato arrestato un anno fa in Israele per traffico di esseri umani. Non so perché sia libero. Ma lui ha sparso la voce in Libia presso gli eritrei, ha detto che poteva farli arrivare fino in Israele. Mio fratello gli ha creduto e ha pagato duemila dollari, poi quando hanno raggiunto il Sinai ha consegnato lui e i suoi compagni ai beduini. I quali hanno lasciato loro solo i telefoni cellulari intimando loro di telefonare a quanti conoscevano in Europa, negli Stati Uniti o in Eritrea. Non scherzano, mio fratello mi ha confermato che hanno ucciso otto persone davanti a tutti in questo mese».H. conferma le disumane condizioni di prigionia in cui viene tenuto il gruppo. «Sono incatenati in container o comunque in locali sotterranei. Sono un’ottantina e i locali sono tre, perciò ha dedotto che sono circa 250, ma non sa dirmi ovviamente il numero esatto. Con loro sono detenute anche persone che hanno raccontato di provenire dall’Eritrea attraverso il Sudan. Vengono tutti picchiati con sbarre di ferro, mangiano e bevono raramente. Ci sono anche alcune donne che quasi ogni notte vengono prelevate e subiscono stupri. Mio fratello mi ha riferito che alcune in stato di gravidanza sono state costrette ad abortire. Anche le donne vengono regolarmente percosse dai carcerieri».Dai racconti del fratello in ostaggio non è invece possibile risalire alla località.«Sono nel Sinai, nel nordest dell’area. È riuscito a capire che si trova in un frutteto. E vicino alla prigione dice che cha visto una moschea e una vecchia chiesa convertita in scuola. Ma non sanno dire quanto siano distanti dal confine».Infine le modalità di pagamento, che dimostrano la sofisticata organizzazione della banda.«A me hanno chiesto pagamenti divisi in rate. La prima e la seconda li ho effettuati con i servizi di trasferimento di denaro della Western Union. Pochi minuti prima di pagare mi è arrivato un sms che indicava il nome del destinatario e l’agenzia sulla quale effettuare il pagamento. I banditi usano nomi diversi, sabato scorso mi hanno dato un altro nominativo. Sono stati rapidi ed efficienti, la sera stessa ho avuto la conferma che mio fratello era vivo. Non posso dire di più, almeno finché lui è prigioniero. Ora sto cercando disperatamente i soldi per il riscatto che resta da pagare. Prima, però vorrei delle garanzie perché devo sapere che verrà veramente liberato». Domani H. si recherà a Ginevra nella sede dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite con un’altra famiglia che sta vivendo la stessa tragedia. Vogliono sollecitare un intervento sul governo del Cairo. Ha fissato un appuntamento con un funzionario grazie alla mediazione della Croce Rossa internazionale. Ma non ha molta fiducia, ha aspettato più di una settimana prima di venire ricevuto. E teme che di questo dramma non importi nulla a nessuno.
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